Giovanni PALATUCCI-UNIMRI - Unione Nazionale Insigniti Ordine al Merito della Repubblica Italiana

Giovanni PALATUCCI

                                                               

                                                               
PalatucciGiovanni PALATUCCI
Servo di Dio
Giovanni Palatucci (Montella, 31 maggio 1909Dachau10 febbraio 1945) è stato un poliziotto italiano, vice commissario aggiunto di pubblica sicurezza.

Inizialmente addetto all'ufficio stranieri dal 12 novembre 1937 e poi reggente della Questura di Fiume sino al 13 settembre 1944, quando fu arrestato dai tedeschi delle SS e internato il 22 ottobre successivo nel campo di concentramento di Dachau con il numero 117826, dove morì di stenti il 10 febbraio 1945, 78 giorni prima della liberazione del campo.2000px-Stemma_della_Polizia_di_Stato_2007.svgNel 1952 lo zio vescovo Giuseppe Maria Palatucci raccontò che il nipote durante la sua permanenza a Fiume aveva salvato «numerosissimi israeliti». Da allora Giovanni Palatucci è salito agli onori sia in Israele (dove è Giusto tra le nazioni dal 1990), sia presso la Chiesa cattolica (per la quale è Servo di Dio dal 2004), sia presso la Repubblica Italiana (per la quale è Medaglia d'oro al merito civile dal 1995).
         
Nel 2013 il Centro Primo Levi ha avanzato alcuni dubbi sulla corretta ricostruzione
storica delle vi
cende legate alla figura di Palatucci. A seguito di questa ricerca la figura di Palatucci è stata rimossa da una esposizione al Museo dell'Olocausto di Washington e lo Yad Vashem e il Vaticano hanno iniziato a esaminare la nuova documentazione emersa.

01_Andrea_SCHIVO_Foto4 01_Andrea_SCHIVO_Foto3Biografia


Nato a Montella, nella provincia di Avellino, da Felice e Angelina Molinari, era nipote di Giuseppe Maria Palatucci, vescovo di Campagna. Compì gli studi presso il Ginnasio "Dionisio Pascucci" di Dentecane di Pietradefusi e il Liceo Classico "Pietro Giannone" di Benevento. Dopo la maturità conseguita a Salerno nel 1928, svolse nel 1930 il servizio militare a Moncalieri come allievo ufficiale di complemento. Iscritto al Partito Nazionale Fascista, nel 1932 conseguì la laurea in giurisprudenza presso l'Università di Torino. Nel1936 giurò come volontario vice commissario di pubblica sicurezza. Nel 1937 venne trasferito alla questura di Fiume come responsabile dell'ufficio stranieri e poi come commissario e questore reggente.

Nella sua posizione ebbe modo di conoscere l'impatto che le leggi razziali ebbero sulla popolazione ebraica. In quel contesto, cercò di fare quello che la sua posizione gli permetteva, creando attraverso una rete di amici una strada per salvare tanti ebrei dai campi di sterminio. In una lettera ai genitori scrisse: «Ho la possibilità di fare un po' di bene, e i beneficiati da me sono assai riconoscenti. Nel complesso riscontro molte simpatie. Di me non ho altro di speciale da comunicare».

Un calcolo approssimativo ha stimato in più di 5.000 il numero di persone che Giovanni Palatucci aiutò a salvarsi durante tutta la sua permanenza a Fiume.

Dachau

Nel novembre 1943 Fiume, pur facente parte della Repubblica Sociale Italiana, di fatto entrò a far parte della cosiddetta Zona d'operazioni del Litorale adriatico, controllata direttamente dalle truppe tedesche per ragioni d'importanza strategica e il comando militare della città passò al capitano delle SS Hoepener. Pur avvisato del pericolo che correva personalmente, decise di rimanere al suo posto.

29 aprile 1945: dopo meno di due mesi dalla morte di Palatucci nel campo di concentramento di Dachau, i prigionieri sopravvissuti vengono liberati dagli americani.

Il Console svizzero di Trieste, un suo caro amico, gli offrì un passaggio sicuro verso la Svizzera, offerta che Palatucci accettò, inviando al suo posto la sua giovane compagna ebrea.

Per contrastare ulteriormente l'azione del comando tedesco, Palatucci vietò il rilascio di certificati alle autorità naziste se non su esplicita autorizzazione, così da poter aver notizia anticipata dei rastrellamenti e poterne dar avviso. Inoltre inviava relazioni ufficiali al governo della Repubblica Sociale Italiana per segnalare continue vessazioni, limitazioni nello svolgere le proprie attività e il disarmo dei poliziotti italiani da parte dei tedeschi.

Egli si preoccupò anche dell'istituzione di uno "Stato Libero di Fiume", per far sì che questo territorio, che correva il rischio di dover venir ceduto dall'Italia alla Jugoslavia, mantenesse una sua indipendenza. Fu proprio con l'accusa formale di cospirazione ed intelligenza con il nemico in seguito al «rinvenimento di un piano relativo alla sistemazione di Fiume come città indipendente, tradotto in lingua inglese» che il 13 settembre 1944 venne arrestato dai militari tedeschi e tradotto nel carcere di Trieste. Il 22 ottobre venne trasferito nel campo di lavoro forzato di Dachau, dove morì due mesi prima della liberazione, a soli 36 anni.

Controversie

Aiuti agli ebrei e accuse di collaborazionismo

Già nel 1995 furono avanzati dubbi sulla corretta ricostruzione storica delle vicende legate alla figura di Palatucci ma maggiore clamore ha destato la ricerca condotta dal Centro Primo Levi nel 2013 che ha in parte ridimensionato i meriti attribuitigli

Secondo lo storico Michele Sarfatti è avvenuto che «il sistema delle onoranze nei confronti di Giovanni Palatucci ha preceduto il lavoro di ricerca storica. Questo è il motivo per cui a lui sono state attribuite in modo acritico azioni che nessuno aveva mai verificato essere state compiute veramente da lui».

Un memorandum del Ministero degli Interni del luglio 1952 aveva già escluso che Palatucci avesse compiuto un salvataggio di massa, ma nessuno fece approfondite ricerche documentali.

Stando alla ricerca del Centro Primo Levi, in base all'esame di circa 700 documenti finora inediti, Palatucci andrebbe descritto come uno zelante esecutore della deportazione di almeno 412 dei circa 500 ebrei presenti a Fiume, nel suo incarico di responsabile dell'applicazione delle leggi razziali fasciste. La sua deportazione e morte a Dachau sarebbe stata dovuta non al suo aiuto agli ebrei, ma all'aver mantenuto contatti col servizio informativo nemico, per aver passato agli inglesi i piani per l'indipendenza di Fiume.

Anche il museo Yad Vashem e la Santa Sede hanno avviato accertamenti. L'Osservatore Romano, seppure con qualche riserva, ha ammesso che «sul caso Palatucci le ricerche storiche di prima mano sono state poche, che numeri e fatti sono stati sottoposti ad interpretazioni agiografiche. Ed è anche probabile che in seguito alle ricerche in corso i numeri andranno ridimensionati, che alcuni eventi andranno riletti».

Secondo la ricerca del 2013, la storia di Palatucci sarebbe un mito fomentato dallo zio, il vescovo Giuseppe Maria Palatucci, che nel 1952 si sarebbe servito della storia inventata per assicurare una pensione di guerra al fratello e alla cognata, genitori di Palatucci.

Michael Day, giornalista per il quotidiano The Independent, si è chiesto come Palatucci abbia potuto aiutare più di 5.000 ebrei a fuggire da una regione in cui la popolazione ebraica era grande la metà. Anna Pizzuti, curatrice del database degli ebrei stranieri internati in Italia, ha sostenuto al Corriere della Sera che è impossibile che Palatucci abbia inviato "migliaia di ebrei [...] nel campo di internamento di Campagna dove sarebbero stati protetti dal Vescovo Giuseppe Maria Palatucci", perché "quaranta in tutto sono i fiumani internati a Campagna. Un terzo del gruppo finì ad Auschwitz".

Testimonianze a favore

ha pubblicato un lungo articolo della storica Anna Foa in cui riabilita Palatucci auspicando "che il Museo di Washington, che ha immediatamente cancellato dai suoi siti e dalle mostre il nome di Palatucci, abbia avuto accesso alla documentazione e non solo alla lunga analisi che ne fa il centro Primo Levi e rigetta le accuse mosse dello stesso Centro che tace sulle numerose testimonianze di salvataggi individuali rilasciate dagli stessi ebrei che furono salvati e sul fatto che la mancanza di documentazione scritta è da ascrivere proprio al fatto che le operazioni attuate da Palatucci fossero necessariamente segrete. Conclude L'Osservatore RomanoIn favore di Palatucci nel giugno 2013 decise di testimoniare l'anziana Renata Conforty i cui genitori furono tratti in salvo proprio dal questore di Fiume. Dopo un lungo silenzio anche il Vaticano, attraverso la Foa che "ora come ora, in presenza di condanne infondate tanto definitive, ciò che è fondamentale è rispondere attraverso la documentazione a queste semplici domande: Palatucci ha o no salvato degli ebrei? Palatucci ha o no denunciato degli ebrei? Solo a queste domande ci aspettiamo che i documenti diano una risposta". 

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Per gentile concessione del Prof. Pier Luigi GUIDUCCI riportiamo: 


L’ULTIMA SCELTA. GIOVANNI PALATUCCI (1909-1945)

“Giusto tra le nazioni”. Lo stato della ricerca dopo i lavori della

Commissione Guiducci (2010-2015)

 

(Prof. Pier Luigi Guiducci
Pontificia Università Lateranense)

 

Tra il 2010 e il 2015 un team di storici[1], presso l’Università Lateranense di Roma,  ha voluto approfondire la figura e l’operato dell’ex reggente della Questura di Fiume,  dr. Giovanni Palatucci, morto nel lager di Dachau (1944). L’iniziativa, che ha accolto contributi di più interlocutori e Paesi,  ha permesso di dissipare alcune ombre gettate sulla figura del Palatucci dal Centro “Primo Levi” di New York. Il progetto è stato condiviso anche con diversi esponenti della Comunità ebraica e ha rafforzato la positiva interazione con il Memoriale Yad Vashem di Gerusalemme. Si riportano qui di seguito i dati più significativi comunicati dalla Commissione agli studiosi e ai media[2], con ulteriori aggiornamenti.

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Giovanni Palatucci

 

La resistenza

Le iniziative che in Italia (e altrove) rientrarono nell’ambito della “resistenza al nazifascismo” non furono solo un fatto d’arme. Non implicarono necessariamente uno spargimento di sangue. Uno scontro violento tra forze contrapposte. Il moto di opposizione ebbe infatti più volti[3]: 1] quello morale (condanna di dottrine, critiche di atti giuridici illegittimi, palese disapprovazione di comportamenti  oppressivi e violenti…); 2] quello della non collaborazione (resistenza al reclutamento di manodopera coatta; astensione, pur in presenza di comandi; nascondimento di macchinari, pur in presenza di ordini in materia di produttività; scioperi; irreperibilità, pur in presenza di convocazione…); 3] quello pedagogico (vicinanza alle nuove generazioni per prepararle a un futuro migliore; conservazione di opere proibite; messa in circolazione di testi firmati da autori condannati dal regime…);  4] quello civile (manomissione di archivi, protezione dei perseguitati, intese politiche per una nuova Italia…); 5] fino ad arrivare a realtà ad alto rischio (tipografie clandestine, staffette partigiane, preparazione e gestione di attentati, conflitti frontali….

 

Resistenza civile e delazione

In tale contesto, chi volle attuare una resistenza civile, dovette ˗ prima di tutto ˗ agire in modo da non destare sospetti. Il sistema della delazione era, infatti, tra i maggiori pericoli. Basti pensare, ad esempio, a quanto accadde a Roma[4]: arresto di Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo, don Giuseppe Morosini, don Pietro Pappagallo, Settimio Sorani, Leone Ginzburg, Aladino Govoni, Unico Guidoni, Uccio Pisino, Ezio Lombardi, Tigrino Sabatini[5], Karel Weirich, et al.. Anche a Fiume avvennero fatti di una particolare gravità. L’ex custode del tempio israelitico (un certo Plech), è solo un esempio,  utilizzò le proprie conoscenze per condurre le forze dell’ordine nelle abitazioni e nei nascondigli dei ricercati.[6]

Se poi  chi prendeva le distanze da teorie e prassi nazifasciste (specie dalle  politiche antisemite) operava nella Pubblica Amministrazione, e ˗ segnatamente ˗ nelle Forze dell’Ordine, la strada per attuare  iniziative umanitarie era durissima.

 

Metodo di ricerca storica

Questo primo dato storico viene  evidenziato perché negli archivi pubblici italiani (quali ad esempio l’Archivio Centrale dello Stato), e in quelli di altri Paesi (es. Germania, Ungheria, Croazia, Serbia…), oltre che nei fascicoli conservati presso Fondazioni e Istituti Storici, non è possibile pensare di individuare traccia di azioni svolte in modo clandestino. Al contrario, si possono trovare solo documenti con informative ufficiali:

-persecuzioni in generale e in particolare (dalle repressioni allo sterminio ebraico);

-memorie per le commissioni per l’epurazione (de-fascistizzazione delle amministrazioni dello Stato, degli enti locali e parastatali, degli enti sottoposti a vigilanza o tutela dello Stato e delle aziende private esercenti pubblici servizi o d’interesse nazionale);

-tutele economiche; procedimenti disciplinari; encomi.

Per riuscire, in qualche modo, ad acquisire delle informazioni riservate, più articolate, è necessario rileggere le cronache[7] e le testimonianze del tempo, studiare gli interventi di alcuni protagonisti della resistenza anche ebraica, le carte di singole famiglie, gli incartamenti depositati presso le Curie diocesane, i progetti ideati pure in sedi esterne all’Italia, sviluppare una ricerca sulle reti sotterranee di solidarietà, e approfondire i contenuti degli atti di intelligence depositati presso il Deutsches Bundesarchiv [8], o nelle raccolte inglesi (The National Archive; Londra[9]), statunitensi (National Archives and Records Administration; Washington). Tali sottolineature sono significative anche con riferimento alla figura di un commissario originario della Campania: il dr. Giovanni Palatucci.

 

Giovanni Palatucci

Nato a Montella (Comune in Provincia di Avellino) il 31 maggio 1909,  morto nel lager di Dachau il 10 febbraio 1945. Conseguì il diploma di maturità classica al liceo “Tasso” di Salerno. Dopo  il servizio militare, si laureò in Giurisprudenza (1932). Rinunciò poi alla professione forense per entrare come funzionario nell’Amministrazione della Pubblica Sicurezza.

 

Genova

Il dr. Palatucci fu assegnato alla Regia Questura di Genova (dall’agosto del 1936). Ebbe il grado di volontario vice commissario aggiunto di P.S.. Nella città ligure conobbe pure la guardia scelta Raffaele Avallone[10] (che verrà poi trasferito a Fiume). Dal febbraio al maggio del 1937 frequentò a Roma la Scuola di Formazione per Funzionari della P.S. Della Questura di Genova Palatucci non condivise talune prassi. E lo affermò con chiarezza in un’intervista.[11] Il questore Rosai non gradì l’esternazione e si attivò per un trasferimento (la designazione finale riguardò poi la Regia Questura di Fiume). Scrisse (21 ottobre 1937), al riguardo, al capo del personale del Ministero dell’Interno, il vice prefetto dr. Carlo Scrivi:  «(…) Le designo per il trasferimento da questa ad altra sede ˗ il vicecommissario aggiunto di P.S. dott. Palatucci Giovanni, del quale non sono eccessivamente contento».

 

Fiume

Il dr. Palatucci prese servizio[12] il 15 novembre  1937. Era prefetto in quel momento il dr. Francesco Turbacco.[13] La città di Fiume faceva parte del Regno d’Italia  dal 1924. Era stata in precedenza il porto del Regno d’Ungheria e poi ‘Città Libera’. Nell’abitato rimanevano gli effetti del contrasto etnico in Friuli-Venezia Giulia tra italiani e sloveni-croati. Unitamente a ciò, con la perdita del proprio naturale retroterra della ‘Grande Ungheria’, il traffico portuale aveva subìto un calo di attività. Ciò riversò effetti negativi sull’economia e sulla situazione sociale locale. A Fiume il dr. Palatucci divenne il responsabile dell’ufficio stranieri della Regia Questura. Gli competeva, tra l’altro, il compito di vidimare i permessi di soggiorno per gli spostamenti degli ebrei (divenuti ˗ di fatto ˗ “stranieri” nel loro Paese). Se uno di loro intendeva, ad esempio, raggiungere Trieste (o altra località del Regno d’Italia), era obbligato a richiedere un visto (autorizzazione della Questura).

 

Le convinzioni politiche

Dai documenti conservati in più Archivi (non solo italiani), risulta che il dr. Palatucci non mostrò un particolare allineamento con l’orientamento politico del tempo. Quest’ultimo era ispirato alle direttive di  Mussolini, a quelle del PNF, alla filosofia di Giovanni Gentile[14], e alle prassi stabilite dai gerarchi  locali. Piuttosto, egli:

-mantenne una linea di riservatezza; un proprio rigore morale su determinati valori-chiave;

-esternò un’attenzione non debole verso temi riguardanti la vita italiana;

-mantenne  un rispetto non servile (fu infatti critico in diverse occasioni) verso chi rappresentava lo Stato.

In tale contesto, traspare da taluni scritti privati:

-una personale insofferenza verso le intemperanze fasciste; un disaccordo verso oppressivi rastrellamenti “a raggio”;

˗una netta presa di distanza da quelle affermazioni razziste che costituirono la base teorica del sistema persecutorio antiebraico (e non solo). Le indagini condotte per un cognome, per una nascita, per un’appartenenza genetica, non trovarono in lui un assertore. Non facevano parte del suo costume professionale, della sua etica. Si ricorda, al riguardo una sua affermazione: “Vogliono farci credere che il cuore sia solo un muscolo e ci vogliono impedire di fare quello che il cuore e la nostra religione ci dettano”;[15]

˗sul piano della fede, Palatucci mostrò di seguire un proprio itinerario, e una partecipazione alla vita ecclesiale.

 

Consolato Svizzero di Trieste

Dalle indagini effettuate, incluse quelle iniziate presso l’Ambasciata Svizzera in Italia e proseguite poi in Svizzera, risulta che nei territori di Trieste e di Fiume erano operativi più centri che svolgevano anche attività di assistenza (es. l’ONMI). Tra questi, assunse un ruolo non debole il Consolato Svizzero a Trieste. Il Console si chiamava Emilio Bonzanigo. Nato nel 1884, morì nel 1973 a Bellinzona (Canton Ticino). Venne nominato con atto del 21 gennaio  1938. Svolse le sue funzioni dal 13 aprile 1938 al 31 dicembre 1949. Decano del Corpo consolare a Trieste, fu uno dei pochi consoli in attività di servizio ad essere presente all’arrivo degli Alleati (1945).  Non pochi furono i meriti riconosciutigli per la sua opera di umana civiltà.[16] Le discussioni, quindi, su un “fantomatico” Console a Trieste sono risultate prive di fondamento mentre, al contrario, rivestono importanza gli studi sui contatti con Palatucci[17] e sulla politica della Confederazione Elvetica in materia di asilo.

 

Le persecuzioni antiebraiche

Mentre il dr. Palatucci svolgeva i compiti d’istituto, il regime del tempo diffuse Il Manifesto degli scienziati razzisti (14 luglio 1938). Seguì il regio decreto legge   Provvedimenti per la difesa della razza italiana, conv. senza modifiche nella L. 5 gennaio 1939, n. 274. In segreto, però, cominciarono ad arrivare al Duce rapporti dell’OVRA[18]. Segnalavano dissensi e prese di distanza nella popolazione.[19] Malgrado il momento durissimo per gli ebrei, si delinearono (1938-1943) tre risposte organizzate all’oppressione fascista: 1] scuole per bambini, ragazzi e insegnanti ebrei espulsi dalle scuole pubbliche nel 1938; 2] soggiorno e partenze dei profughi stranieri in fuga  dai Paesi invasi dai nazisti; 3] assistenza sociale per profughi stranieri e per ebrei italiani antifascisti rinchiusi in campi di internamento dal giugno del 1940, o sottoposti a domicilio coatto sotto la categoria di “internati liberi” o di “internati civili di guerra”.

 

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I profughi

Negli anni dal 1938[20] fino al 1943-1944 il dr. Palatucci si trovò di fronte  al dramma degli ebrei profughi dall’Austria e poi da Cecoslovacchia, Ungheria, Polonia, Croazia… Tali disperati attraversavano di frequente  i confini in modo clandestino pur di evitare il campo di concentramento. Per queste persone l’ordine di Mussolini (anche ministro dell’Interno) prevedeva l’espulsione, quindi la  consegna ai nazisti (e loro collaborazionisti).[21] Il numero dei profughi ˗ in maggioranza ebrei ˗ si può stimare solo in modo approssimato. Rimaneva poi significativa la realtà degli ebrei della città di Fiume e dintorni ˗ circa 1600 persone ˗ che nel 1938, con le leggi razziali si trovarono quasi tutti privati della cittadinanza italiana. I loro viaggi verso le altre province italiane dovevano avere il visto di autorizzazione di Palatucci.

 

In particolare: gli ebrei jugoslavi

Dopo lo smembramento del regno di Jugoslavia (attacco tedesco e italiano, aprile-maggio 1941), una parte di quel territorio fu riconvertito in una nuova entità: lo Stato Indipendente di Croazia (capitale Zagabria). Al vertice  del potere centrale  (1941) venne posto Ante Pavelić. Questi, fu tra i fondatori del movimento ustaša (“ribelle”). Tale organismo si dimostrò violentemente ostile a una Jugoslavia multietnica, e assolutamente intollerante verso serbi, ebrei e zingari. Altri territori ex jugoslavi furono annessi all’Italia (decreto del 19 maggio 1941).

Nelle aree annesse all’Italia i governanti applicarono agli ebrei locali la stessa politica in atto nel Paese dal settembre del 1938 (norme persecutorie razziste). Anche in quel territorio venne esteso  di conseguenza il provvedimento di internamento degli ebrei stranieri in atto in Italia fin dal giugno del 1940. Erigere campi di internamento sul posto, divenne, però, in più casi, un problema (questioni di vettovagliamento e di sicurezza). Per tale motivo, i colpiti da questo provvedimento furono per lo più trasferiti in Italia, e inizialmente rinchiusi nel campo di internamento di Ferramonti (Cosenza) o di Campagna (Salerno)[22], da cui venivano ritrasferiti, in condizione di “internati liberi”, in domicilio coatto in piccoli paesi isolati del Centro e del Nord Italia.

 

I compiti dell’Ufficio Stranieri

Entrate in vigore le leggi razziali, il dr. Palatucci ebbe il compito di schedare gli ebrei, di controllarne i dati anagrafici e di proibire eventuali loro contatti con gli ariani. Al riguardo, sull’operato della Questura di Fiume, è stato offerto un contributo dalla Studiosa di fede ebraica dr.ssa Anna Pizzuti.

«Il Fondo Questura dell’Archivio di Stato di Fiume è stato reso accessibile alla consultazione solo di recente. Dall’elenco digitalizzato di tutti i fascicoli personali in esso contenuti è stato estratto l’elenco degli ebrei stranieri ˗ principalmente profughi ˗ di cui si occupò la polizia a seguito della promulgazione delle leggi antiebraiche e negli anni dell’invasione italiana dell’allora Jugoslavia. (…). Il file originale dal quale questo lavoro ha preso avvio, contiene i nomi di 4312 intestatari di fascicolo personale e, per un certo numero di essi, anche qualche sintetica informazione sul percorso compiuto, che, nella maggioranza di casi, risulta essere di fuga. Va comunque detto che il thesaurus, cioè la breve sintesi che, nell’elenco, accompagna ciascun nome non è completo e che la documentazione stessa del fondo Questura non è ancora del tutto sistemata. In più è facile comprendere come ˗ soprattutto in presenza di storie molto complesse ˗ la scelta dei termini con i quali rendere il contenuto dei documenti possa essere stata difficile e magari corrispondere solo in parte a quanto realmente accaduto. A ciò va aggiunto anche che la trascrizione dei nomi e cognomi è piuttosto incerta e che alcuni dei nomi delle persone citate nelle sintesi possono non avere legami con l’intestatario del fascicolo: le ristrettezze imposte dalla guerra possono aver costretto gli addetti dei vari enti (Prefettura, Questure ecc.) ad usare la copertina di un fascicolo dismesso per una persona diversa da quella per la quale era stato compilato. È anche possibile che i fatti segnalati dai documenti non siano veri o lo siano solo in parte , ma questo è un rischio che va sempre messo in conto in questo tipo di ricerche e che può essere risolto solo con una continua opera di confronto e verifica delle fonti».[23]

 

Alcune sottolineature della Pizzuti

Nel rapporto pubblicato dalla Pizzuti, la Studiosa annota delle evidenze utili da acquisire. «L’osservazione dei primi dati consente di verificare la mancata corrispondenza, in molti casi, tra le informazioni che si desumono dai fascicoli fiumani e quelle che sono state trovate nei documenti conservati negli archivi italiani. Non è la prima volta che relativamente a singoli o a interi gruppi esaminati nel corso delle ricerche ci si trova di fronte a problemi del genere; ad esempio, in molti dei fascicoli personali di ebrei stranieri internati conservati presso l’Archivio Centrale dello Stato di Roma, ci sono documenti che portano a ritenere che l’intestatario e, spesso, la sua famiglia, siano emigrati, mentre in realtà ciò non accade, come testimonia la presenza, nello stesso fascicolo, di altri documenti, in date successive, che provano la continuazione dell’internamento. Come si può notare (…), anche i fascicoli fiumani testimoniano di casi del genere, se pure non numerosi, almeno allo stato attuale delle ricerche.

Tuttavia le curiosità che i dati fanno nascere sono altre e, forse, più significative. La prima riguarda lo scarto esistente tra il numero dei casi in cui il contenuto del fascicolo porta a ritenere che l’intestatario sia stato internato ed i risultati del confronto con il database generale dell’internamento in Italia presente sul sito.

La ricerca è ancora in corso, i dati già presentati non possono considerarsi definitivi, eppure è evidente che, sempre che le notizie contenute nei fascicoli fiumani corrispondano al modo in cui i fatti realmente si svolsero, il numero degli ebrei stranieri a qualsiasi titolo presenti a Fiume prima e/o durante la guerra di cui si documenta in qualche modo l’ingresso “nel regno” ed i cui nomi non sono stati, finora, rinvenuti tra gli internati è molto elevato.

La seconda riguarda, invece, la presenza in Italia, come internati, di 15 dei 29 ebrei stranieri che i documenti danno, invece, come internati nei campi istituiti dagli italiani (Kraljevika, Pag, Rab). In ogni caso l’impossibilità di stabilire quando i fascicoli siano stati aperti e la difficoltà di stabilire coerenti riferimenti cronologici, anche per molti dei fascicoli dei quali è stata effettuata la sintesi, potrebbero ingenerare errori nella ricomposizione delle varie sequenze che compongono le singole vicende.
Nell’elenco degli intestatari dei fascicoli fiumani sono stati identificati 938 nomi ˗ 668 uomini, 270 donne ˗ presenti nel database degli ebrei stranieri internati in Italia durante il periodo bellico. Di 913 di essi risulta con certezza l’internamento, mentre 23 sono nomi di ebrei ˗ 17 uomini e 6 donne ˗ internati in campi istituiti dagli italiani nelle zone annesse della Jugoslavia che, dopo l’8 settembre del 1943, attraversarono l’Adriatico e trovarono rifugio e salvezza nel sud Italia liberato.
Tornando agli internati, si tratta (…) di meno di un quarto delle persone delle quali la polizia fiumana si occupò a partire dalla meta degli anni trenta: per i rimanenti solo la lettura dei fascicoli potrebbe fornire qualche indicazione, se non sul destino, almeno su una parte ˗ quella iniziale, presumibilmente ˗ di ciascuna singola storia. Nonostante ciò, l’osservazione dei dati riportati nelle tabelle (…) offre diversi spunti di riflessione, almeno nelle linee generali, su una parte importante della storia dell’internamento in Italia.

Due i piani delle informazioni aggiunte a quelle contenute dall’elenco. Il primo riguarda la verifica dell’internamento in Italia: di ciascun internato sono state registrate l’ultima residenza prima dell’internamento, la prima e l’ultima sede di internamento con, in più, le informazioni relative al destino di ciascuno, per continuare e completare, quando possibile, la documentazione iniziale presente nel fascicolo.

Il secondo, riguarda la condizione degli intestatari dei fascicoli: quella di profugo entrato magari clandestinamente nella provincia del Carnaro di cui Fiume era capoluogo successivamente all’invasione della Jugoslavia, quella sempre di profugo, ma residente di lungo periodo o quella, infine, di ebreo straniero che avesse acquisito la cittadinanza dopo il 1° gennaio del 1919. La mancanza, già fatta rilevare, dei dati anagrafici degli intestatari dei fascicoli, insieme alla grafia dei nomi in molti casi chiaramente distorta, ha posto numerosi problemi di identificazione. È anche accaduto che per un nome presente negli elenchi fiumani, nel database principale ci fossero due o anche più omonimi e che non sempre le informazioni ad essi collegate potessero facilitare l’identificazione. A queste difficoltà ha spesso sopperito, per converso, l’individuazione di interi gruppi familiari presenti nell’elenco, i cui componenti sono stati ciascuno guida all’identificazione dell’altro. Resta, comunque, il rischio che i dati contengano una certa ˗ si spera minima ˗ percentuale di errori».[24]

 

I riferimenti al 1940 di Federico Falk

Nel 2016 muore a 97 anni Federico Falk (nato nel 1919 da genitori di origine ungherese). Si tratta di uno degli ultimi testimoni della Fiume ebraica stravolta dalle persecuzioni nazifasciste e dalla Shoah. Dopo gli studi scientifici gli fu vietato l’iter universitario (fino al dopoguerra)  per le leggi razziste del 1938. Dal pensionamento in poi egli svolse per quindici anni un lavoro di ricerca per non far cadere nell’oblio i volti, le biografie, i legami di una comunità ebraica scomparsa.  Nel 2012 esce a Roma la sua opera dal titolo: Le comunità israelitiche di Fiume e Abbazia tra le due guerre mondiali.[25] In questo lavoro l’A. si è messo sulle dolorose tracce della memoria fiumana tra Italia, Europa, Americhe, Israele e Australia. Al riguardo, è interessante la sua testimonianza sul dr Palatucci. Si riporta un passo:

“(…) Naturalmente, con le leggi razziali, gli ebrei fiumani subirono la sorte di tutti gli ebrei
italiani. Furono espulsi da tutte le scuole del regno né poterono iscriversi alle università;
i dipendenti da enti statali, parastatali e comunali vennero licenziati in tronco; gli ufficiali
delle Forze Armate vennero pubblicamente degradati ed espulsi anche se decorati,
come se si fossero macchiati di alto tradimento. Inoltre dopo l’entrata in guerra dell’Italia
il 10 giugno 1940 in una retata notturna tra il 18 ed il 19 giugno, ordinata dal prefetto Temistocle Testa, circa 400 ebrei maschi di età superiore ai 18 anni vennero arrestati e incarcerati perché considerati nemici: all’uopo venne requisita la scuola elementare del rione periferico di Torretta ove i malcapitati vennero rinchiusi circa 30-40 per aula in condizioni primitive.

Alcune delle persone arrestate vennero rimesse in libertà dopo 8-15 giorni, tutti gli altri vennero inviati al confino in varie località dell’Italia centro-meridionale: in questo provvedimento molti furono agevolati dall’opera del Vice-Questore, dott. Giovanni Palatucci, ed in alcuni casi riuscirono così a salvarsi dalla deportazione nei campi di sterminio nazisti”.[26]

 

Ampliamento della Provincia di Fiume (1941)

Dal 7 giugno 1941, a seguito dell’aggressione (aprile 1941) delle Potenze dell’Asse al Regno di Jugoslavia, e della firma del  trattato di Roma (18 maggio 1941), il territorio della provincia di Fiume venne ingrandita. Furono annessi l’entroterra orientale di Fiume (Sussak, Castua, Buccari, Čabar) e le isole di Veglia e Arbe (poste nel golfo del Quarnaro). Presso la Prefettura di Fiume si attivarono due uffici: l’Intendenza civile per i Territori annessi del Fiumano e della Cupa, e il Commissariato civile di Sussak, con competenza rispettivamente sulle aree interne e su quella costiera.

 

I problemi di Palatucci con i superiori (1941)

Dalla documentazione esaminata, risulta che il dr. Palatucci, nel suo lavoro, al di là di apparenze e atti formali, ebbe problemi con i superiori.[27] Un riscontro di ciò lo si trova in una lettera indirizzata ai familiari (8 ottobre 1941):

“Carissimi genitori, ancora una volta mi faccio prendere in fallo. Ho pensato oggi di telegrafarvi per rassicurarvi sul mio conto, ma non l’ho fatto. È molto difficile giustificarmi ed è altrettanto difficile per voi rendervi conto di quanto sia occupato. Ora, per esempio, è già passata la mezzanotte e io ho appena smesso di lavorare. Sono ancora in ufficio naturalmente. Talvolta vengo di mattina in ufficio col fermo proposito di scrivervi. Poi, tra pubblico, telefonate, colloqui coi superiori e i dipendenti la cosa mi sfugge. Passano così i giorni e le settimane senza che abbia un po’ di tempo libero di scrivere qualche cosa di più che una cartolina illustrata. Eccomi, dunque, a voi. Malgrado l’eccessivo lavoro sto bene in salute. I miei rapporti coi superiori sono formali. Più esattamente essi sanno di aver bisogno di me, di cui, a quanto sembra, non possono fare a meno, e certamente mi considerano bene, mi stimano come capacità e rendimento; ma sanno bene che, grazie a Dio, sono diverso da loro. Siccome lo so anch’io, i rapporti sono di buon vicinato ma non cordiali.

La cosa non ha molta importanza. Non è a loro che chiedo soddisfazioni, ma al mio lavoro, che me ne dà molte. Ho la possibilità di fare un po’ di bene, e i miei beneficati me ne sono assai riconoscenti. Nel complesso incontro molte simpatie. Di me non ho altro di speciale da comunicare. Purtroppo ho sospesi i contatti epistolari con quasi tutti, parenti e amici, in assoluta mancanza di tempo (…)».

Le frasi riportate (a rischio di censura) indicano dei messaggi in codice. A Fiume la situazione non andava bene. La “non cordialità” significa una sostanziale non intesa. Anche il riferimento ai “beneficati” è volutamente generico. Palatucci non si azzardò a entrare in dettaglio. Per questo motivo, a uno storico non può bastare una lettura di superficie. Nella lettera è proprio il riferimento a dei soggetti che ottengono “benefici” che induce a riflettere su qualcos’altro. I problemi con i superiori trovano comunque due riscontri:

˗ in più occasioni (1939-1942), Palatucci chiese di essere trasferito (a Riccione, o Cattolica, o Cesena). Non gli fu permesso. Al contrario, i superiori cominciarono a tenerlo sotto controllo (in tempo di guerra, chi chiedeva di essere trasferito dal proprio posto di lavoro era visto con sospetto), mentre,  per non generare allarme, gli manifestavano consenso;

˗ il 23 luglio del 1943 un ispettore, per ordine ministeriale, fece delle verifiche nell’ufficio di Palatucci. Trovò solo elenchi di stranieri non residenti più in Italia da lungo tempo. Imputò al giovane responsabile negligenza, scarsa vigilanza. Fu consegnata, così, una nota di biasimo.

Per il ricercatore, tutto questo significa andare oltre le note positive ufficiali che può trovare in un fascicolo. Deve inoltre indagare anche su un eventuale spionaggio interno per verificare il reale comportamento dei superiori riguardo a Palatucci.

 

Commissario aggiunto

Con lettera del 28 febbraio 1943 il dr. Palatucci comunicò ai suoi genitori di aver conseguito la promozione a commissario aggiunto.

 

Dopo l’8 settembre 1943

Il 1° ottobre del 1943 fu istituita la Operationszone Adriatisches Küstenland (Zona d’Operazioni del Litorale Adriatico). Il territorio venne posto sotto il diretto controllo tedesco. Commissario supremo fu il Gauleiter Friedrich Rainer (1903-1947). A quest’ultimo venne affiancato per i compiti di repressione il Gruppenfuhrer SS Odilo Lotario Globocnik (1904-1945; nato a Trieste).  L’ufficiale in questione aveva guidato l’Aktion Reinhardt[28] nei campi di Sobibor, Treblinka, Belzec e Majdanek. Era noto come il “boia di Lublino”.

Fiume, pur inclusa nella Repubblica Sociale Italiana, entrò (di fatto) a far parte della succitata Zona. Il comando militare della città fu assegnato al capitano delle SS Hoepener.[29] La comunità locale si trovò in una condizione difficile. Era divenuta un “alleato-occupato”. In quel momento, gli ebrei presenti a Fiume erano circa 3.500. In gran parte profughi (Croazia e Galizia). Nel frattempo, membri della R.S.I. accusarono le istituzioni della Chiesa cattolica di proteggere ebrei. Un riscontro lo si trova in una relazione del Comando della Guardia Nazionale Repubblicana. Emerge un duro risentimento: “Si può affermare, senza pericolo di essere smentiti, che il 70% degli abbietti israeliti è passato per le loro lunghe mani per essere poi portato a salvamento dai loro ribelli o banditi”.[30]

 

L’ultima lettera ai genitori

Il 21 ottobre del 1943 il dr. Palatucci scrisse una lettera ai genitori. Fu l’ultima. Si riporta il testo: “Carissimi genitori, questa lettera vi giungerà quando le circostanze lo permetteranno. Essa vi recherà il mio ricordo e l’espressione del mio costante affetto. In salute a tutt’oggi sto benissimo, sebbene abbia molto lavoro. Il morale è alto. Supereremo la bufera, nella speranza che alla nostra patria sia riservata una sorte onorevole a condizioni possibili di vita. Appena possibile vi farò pervenire altre notizie. Non occorre dire che, appena le circostanze lo consentiranno, correrò da voi. State assolutamente tranquilli per me. Sono certo che non incorrerò in alcun male. Auguro a voi le migliori cose con la speranza di potervi riabbracciare al più presto. Giovanni».

 

Bombardamenti

A partire dai primi mesi del 1944 fino al termine del conflitto, Fiume fu colpita da trenta incursioni aeree. Diversi gli obiettivi (il porto e le strutture produttive della città, specie il Silurificio Whithead, il cantiere navale di Cantrida e la Raffineria R.O.M.S.A.). Gli ultimi bombardamenti, antecedenti al maggio 1945, provocarono la morte di 112 civili e il danneggiamento di circa il 90% delle strutture industriali cittadine, cui se ne aggiunsero altre 1.700 tra edifici pubblici e abitazioni private. A ciò si aggiunse il fatto che i tedeschi, poco prima della loro ritirata, distrussero le infrastrutture del cantiere e del porto, facendo saltare in aria con delle mine il Porto Petroli, Porto Baross e poi il porto principale, che subì il danneggiamento di magazzini, banchine e moli, con alcuni moli che si staccarono dalla riva.

 

Febbraio 1944

Il 28 febbraio del 1944, dopo il trasferimento del reggente dr. Roberto Tommaselli[31], il dr. Palatucci venne nominato reggente della Questura alle dirette dipendenze di Tullio Tamburini (1892-1957;  Capo del Corpo di Polizia Repubblicana[32]) e poi di Eugenio Cerruti (nato nel 1898; Capo del C. di P.R.[33]). La Questura, comunque, aveva perso potere e capacità d’intervento. Doveva eseguire ordini impartiti da nazisti. Tutto il personale era stato disarmato.[34]

 

L’invito di Frossard

In tale contesto, si mosse un amico di Palatucci. Grazie alla documentazione conservata presso l’Archivio statale di Rijeka (due fascicoli) e presso il Fondo privato “Giovanni Palatucci”  (conservato dall’avv. Antonio De Simone Palatucci), si possono estrapolare dei dati. La persona vicina al reggente era un conte. Si chiamava Marcel Frossard de Saugy (1885-1949). Nato a Graz (Austria). Di nazionalità svizzera. Coniugato con Gerda Frossard de Saugy (nata nel 1883). La moglie proveniva dalla famiglia von Bülow. I Frossard erano genitori di due figlie. Possedevano una villa a Laurana. In questa proprietà, nel 1950, venne ritrovata dalla signora Gerda (in occasione della vendita dell’immobile) una valigia con vestiti ed effetti personali che Palatucci aveva lasciato. È dalla lettera che la signora Gerda scrisse in seguito alla madre di Palatucci (21 agosto 1950) che sono provati i rapporti di amicizia tra il reggente e la famiglia Frossard. Frossard invitò il dr. Palatucci a seguirlo in Svizzera. L’avrebbe ospitato a Ginevra, in rue de la Tertasse 5. Pur avendo la possibilità di allontanarsi da Fiume, il reggente non volle lasciare il proprio ufficio.

 

Mika (Mikela) Eisler

Il dr. Palatucci, mandò al suo posto una giovane ebrea. Questa donna si chiamava Mika (Mikela)  Eisler Habraham. Proveniva da Karlovać (località situata nella parte più centrale del territorio croato). Suo  padre (Ernesto) era stato arrestato dagli ustaše il 6 luglio 1941 (poi eliminato nel campo di Jadovno). Mika raggiunse il territorio elvetico insieme alla madre (Dragica Braun) nel dicembre del 1943. Secondo la testimonianza del medico Giovanni Perini, accettò il compito ˗ affidatole da Palatucci ˗ di consegnare oltre confine un progetto di autonomia riguardante Fiume.

 

La scelta di restare e la questione dell’archivio

Alcuni ricercatori si sono chiesti perché Palatucci non lasciò Fiume. Le ipotesi, al riguardo, si sono accumulate creando nebbia. In realtà, dallo studio dei documenti del tempo, si individuano delle evidenze. 1] Il reggente non volle abbandonare i suoi uomini. Questi, ebbero con lui  vari contatti legati soprattutto a situazioni di incolumità personale e a vicende di famiglia. L’ambiente della Questura era ormai segnato da paure, insicurezze, previsioni funeste. Palatucci era consapevole di drammi incombenti (che puntualmente si verificarono: foibe).

2] Esistevano situazioni a rischio per i civili. Quest’ultimi continuavano a vedere nelle ultime autorità italiane rimaste degli interlocutori naturali. 3] Il reggente approfittò dell’opportunità fornita dal conte Frossard per mettere in salvo due donne ebree (cit.). È in questo periodo che Palatucci potrebbe aver cercato di manomettere alcuni incartamenti di ebrei (altri fecero lo stesso a Roma, Ancona, La Spezia, Trieste…). Comunque, il reggente non distrusse l’archivio, come è stato erroneamente scritto (sarebbe stata un’eclatante prova di colpevolezza). I fascicoli restarono al loro posto (e sono stati fotografati).

 

I problemi con più interlocutori

Nel frattempo la situazione precipitava. Per tale motivo, in data 26 luglio 1944, Palatucci scrisse una relazione al Capo della Polizia Eugenio Cerruti. La trasmise per conoscenza pure al Ministero dell’Interno Direzione Generale P.S. Divisione Personale. Nel testo si ritrova anche un’esplicita denuncia:
«(…) L’azione della Polizia germanica continua a essere esercitata assai spesso su vasta scala, e viene svolta con criterio di durezza e di assoluta mancanza di rispetto della libertà individuale. A partire dal 29 giugno u.s. è stato condotto un rastrellamento che ha interessato alcune centinaia di persone (si parla di 650 persone), nei cui confronti si è proceduto ad arresto indiscriminato, nel cuore della notte, e spesso solo per esperire normali accertamenti di Polizia, mancando elementi di colpevolezza. Degli arrestati alcuni, e sono pochissimi, sono stati rilasciati, altri sono stati con tutta probabilità avviati in Germania, o smistati in altre carceri. Le battute devono essere state molto fruttuose, se il comandante della “Sicherheitspolizei” mi aveva interessato, sul principio del mese, alla ricerca di locali per un nuovo carcere.

Nulla si può opporre agli abusi e ai maltrattamenti perpetrati a danno dei cittadini italiani, perché le autorità italiane o rimangono assolutamente estranee a tali operazioni di Polizia, in quanto ridotte all’impossibilità di una concertazione in tale campo (Questura), o le avallano e le appoggiano mediante opera di delazione[35], spesso a fini di vendetta personale (milizia e P.F.R.). Il Prefetto, poi, che potrebbe svolgere almeno opera di moderazione e di tutela, è del tutto passivo, sia per mancanza di energia di temperamento, sia perché ˗ come da molti segni è dato desumere ˗ è attaccato alla carica per motivi di utilità personale. Gli interventi e le proteste da me fatti finora, sia a favore di cittadini italiani ingiustamente arrestati sia a tutela di agenti di Questura, sono rimasti senza neppure l’onore di una risposta. (…)».[36]

 

L’operazione per eliminarlo

Nel trascorrere del tempo, i superiori di Palatucci - sul piano ufficiale - non formalizzarono accuse   contro quest’ultimo. Le sue interazioni con persone sgradite alle autorità del tempo (donne e uomini ebrei; soggetti sorvegliati a Fiume e a Trieste…) rimanevano comunque controllate. Lo spionaggio  diretto da più regìe  riferiva sui movimenti. Riguardo a questo punto la ricerca di molti  studiosi non si è stranamente inoltrata.[37] Alla fine, il reggente fu neutralizzato con i metodi del tempo. Il collaborazionista che fornì l’input necessario, fu quasi certamente un dipendente della Questura, vicino a Palatucci. Lo stesso storico Renzo De Felice (1929-1996) ha annotato: «(…) Basta ricordare che sulle tracce del commissario Giovanni Palatucci, che salvò col sacrificio della vita migliaia di ebrei, gli addetti ai lavori furono guidati da uno ‘zelante’ poliziotto italiano, mai perseguito dopo la Liberazione».[38]

 

L’arresto

Nella notte del 13 settembre 1944, su ordine dell’autorità nazista (ma non di Kappler come qualcuno ha erroneamente scritto), vennero perquisite le stanze ove abitava il dr. Palatucci. L’appartamento (di proprietà dei signori Malner) si trovava in via Pomerio 29. Non fu un’operazione di ordinaria amministrazione. Si trattava di arrestare il reggente della Questura. Serviva un’imputazione di reato molto grave. In tale contesto, si fece silenzio su una vicinanza del commissario agli ebrei. Ammettere tale fatto sarebbe stato un’auto-accusa di totale inefficienza (con una punizione letale). Nel caso di Palatucci bastò individuare “casualmente” una prova (uno scritto politico proibito?) così da non utilizzare “testimoni”. In tal modo fu “documentato” il reato di alto tradimento.[39]

 

La tortura

Il reggente fu interrogato con i metodi riservati ai traditori.[40] Su di lui pesavano più aggravanti:  essere un pubblico ufficiale, aver mentito in modo reiterato, aver mantenuto contatti con persone considerate nemiche del Terzo Reich, aver posto in essere in tempo di guerra comportamenti ostili al regime. Torturato[41], non fece alcun nome: né di colleghi a lui vicini, né di oppositori al nazionalsocialismo e alla R.S.I. esterni alla Questura, né di ebrei. Un riscontro lo si ricava dal fatto che dopo il suo arresto non venne operato alcun fermo.[42] Per il reato ascritto a Palatucci era previsto un processo (in genere molto rapido) che si concludeva con la condanna a morte (fucilazione alla schiena). Dopo l’arresto di Palatucci fu nominato al suo posto il commissario aggiunto Giuseppe Hamerl. Quest’ultimo, scappato poi a Venezia, relazionò (11 giugno 1945) ai superiori riguardo la situazione di Fiume.

 

Il periodo al “Coroneo” e la deportazione finale

Palatucci, per circa un mese, fu segregato nel carcere di Trieste (“Coroneo”). Gli storici si sono chiesti il motivo di una detenzione non breve, pur in presenza di accuse gravissime. Dalle ricerche effettuate risulta che vennero esperiti dei tentativi per salvargli la vita. Un riscontro di ciò lo si trova nella lettera che il padre del dr. Giovanni Palatucci (di nome Felice) scrisse il 25 agosto 1950 alla contessa Gerda Frossard. Nella missiva è annotato tra l’altro: 

«Nobilissima Signora Contessa, Ho ricevuto le vostre gentili e gradite lettere e non so come esprimerle i miei sentiti ringraziamenti per il ricordo che serba di mio figlio. Anzitutto le esprimo le mie vivissime condoglianze per la dipartita di suo marito e condivido con lei il grande dolore. So che era un paterno amico di mio figlio e molto lo aiutò a Trieste quando trovavasi nelle mani di quei barbari tedeschi (…). Con l’occasione la prego vivamente per il seguente favore. Dato che a Roma alla Direzione della Divisione personale della Pubblica Sicurezza, nel fascicolo personale di mio figlio si trovano importanti documenti spediti a suo tempo dal Prefetto di Fiume riguardanti il caro mio figlio quando fu tradotto nelle carceri di Trieste e il comando voleva ancora farlo fucilare, non fu eseguito per il pronto intervento del grande uomo di suo marito che si interessò presso il Comando Tedesco.

Questa circostanza tornerebbe a maggiore onore di mio figlio e sarebbe tenuto in più grande considerazione dal detto Ministero così mi diceva un alto funzionario della Polizia qualche due mesi fa, come vede tale notizia mi è necessaria perciò la prego vivamente di farmi la cortesia di scrivermi una lettera nella quale descrive tale circostanza. Da tali documenti si rileva la sua dedizione alla Patria ed alla Istituzione della P.S. ed il suo interessamento per la sistemazione della città di Fiume. Se questa notizia verrà manomessa pur saprò quel che manca”.

I tentativi mirati a salvare la vita al dr. Palatucci furono attivati dal conte Marcel Frossard de Saugy. Questa persona fu ascoltata dai nazisti perché, oltre ad essere inserito in attività finanziarie, Frossard era il marito di una nobildonna tedesca, Gerda (cit.), appartenente alla già ricordata famiglia dei baroni von Bülow. Il padre di Gerda, Adam von Bülow Ditrik, era un socio di minoranza della Companhia Antarctica Paulista, che fu uno dei punti di riferimento del processo di modernizzazione in Brasile. Inoltre, prima della IIa guerra mondiale, il Brasile aveva stretti contatti con la Germania nazista: erano partner economici e il Paese sudamericano ospitava il più grande partito nazifascista fuori d’Europa.[43] Non possono, quindi, essere esclusi contatti economici tra i von Bülow e i vertici di Berlino.

 

Dachau

Dal “Coroneo” Palatucci venne deportato al Konzentrationslager (KZL)  di Dachau. Vi giunse il 22 ottobre 1944. Matricola 117826 (tatuata sul braccio). Assegnato alla baracca 25. Era un internato politico di nazionalità italiana: indossò una casacca con un piccolo triangolo rosso avente al centro la lettera I. Morì per tifo petecchiale (10 febbraio 1945). Giuseppe Gregorio Gregori, compagno di baracca del reggente, affermò ˗ però ˗ che il decesso potrebbe essere stato provocato da un’iniezione letale. L’asserzione fu legata al fatto che l’epidemia colpì altre baracche ma non quella del dr. Palatucci. Il corpo del reggente venne gettato nella fossa comune sulla collina di Leiteberg. 78 giorni dopo, il lager fu liberato dagli Alleati.

 

La ricerca storica sui delatori

Nel tempo, si è anche sviluppata una ricerca sulla rete dei delatori (afferenti a regìe occulte) operante a Fiume. Marino Micich, membro della Società di Studi Fiumani, ha dichiarato, ad esempio, di essere a conoscenza (insieme a colleghi) del fatto che alcuni fedeli aiutanti di Palatucci vennero stranamente risparmiati dall’OZNA (polizia segreta di Tito) il 4 maggio 1945, mentre gli altri novanta agenti della Questura di Fiume furono infoibati nei pressi di Grobnico e di Costrena. Riguardo alla tragica fine di questi agenti, esiste pure la testimonianza della figlia di Luigi Bruno (nativo di Caltanissetta, guardia scelta di P.S.) che aveva prestato in precedenza servizio presso la Questura di Bologna. La signora Anna Maria indicò un collega del padre, definito un “giuda”, che il 4 maggio 1945 si era presentato in casa per accompagnarlo in Questura; lui tornò regolarmente a casa, mentre Luigi Bruno e gli altri agenti sparirono nel nulla. Dopo la morte di Palatucci, e malgrado i procedimenti di de-fascistizzazione in corso, diversi membri della P.S. del tempo non rilasciarono dichiarazioni sul reggente morto a Dachau, mantenendo una costante linea di silenzio. Tale orientamento, fu motivato dalla volontà di non rivelare fatti interni purtroppo accaduti (collaborazionismo, delazioni, intese inconfessabili). Parlare in positivo di Palatucci avrebbe implicato per forza di cose il dover far riferimento anche ad altre figure che si comportarono in modo diverso.

 

L’occupazione delle forze titoine

Il 3 maggio 1945, la città di Fiume venne occupata dalle truppe partigiane di Josip Broz (nome di battaglia: Tito; 1892-1980). In quel giorno, e nel periodo immediatamente successivo, furono eliminati gli esponenti autonomisti (Mario Blasich, Riccardo Gigante[44], Giuseppe Sincich, Nevio Skull et al.).

 

La segnalazione di Raffaele Cantoni (1945)

Pochi mesi dopo il decesso del dr. Palatucci a Dachau, avvenne un episodio. Dal 19 al 23 agosto del 1945 fu convocata a Londra una “Special European Conference. Non si trattò (come scritto erroneamente da qualcuno) del II° Congresso Ebraico Mondiale, perché quest’ultimo si svolse a Montreux nel 1948. Agli atti dell’assise è conservato un intervento scritto del rappresentante italiano, rag. Raffaele Cantoni (1896-1971). Quest’ultimo era stato un legionario fiumano. Aveva  avuto contatti con il Congresso Mondiale Ebraico, a Ginevra, fin dal 1936. Fu dirigente della DELASEM (Delegazione per l’Assistenza degli Emigranti Ebrei).  Massone e socialista. Fervente sionista. Nel dopoguerra venne eletto presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane (UCEI). Non si tratta  quindi una figura marginale, di scarso valore storico. Durante la Conferenza succitata, Cantoni rivelò l’esistenza del cosiddetto “canale di Fiume”; e fu da qui che in seguito si giunse al nome di Palatucci attraverso testimonianze di persone da lui salvate.

Cantoni affermò che si era riusciti a salvare migliaia (cinquemila) di ebrei.  Chi aveva fornito a Cantoni quei dati?  Gli Alleati?  I referenti locali della DELASEM? Ma  il rabbino di Sušak, Otto Deutsch, era morto nel manicomio di Nocera Inferiore nel 1943. I sopravvissuti allo sterminio? Dalle informative ritrovate in più archivi, sembra di capire che Cantoni acquisì informazioni da ex  perseguitati e, forse, da alcuni militari alleati. Cantoni non fu però il solo a parlare del canale di Fiume. Si aggiunse pure la segnalazione di un esponente della Comunità Ebraica di Roma, il signor Settimio Sorani (1899-1982).

 

Le annotazioni di Settimio Sorani

Sorani, fu il responsabile della sezione romana della DELASEM dal 1941 al 1943. Si mostrò molto attivo nelle operazioni della resistenza ebraica. Terminata la guerra, assunse la direzione di organizzazioni sionistiche. Dal 1948 al 1952 divenne Commissario per l’immigrazione presso la Legazione dello Stato d’Israele a Roma. Poi, direttore del Keren Hayesod italiano (fondo nazionale di costruzione d’Israele, centrale finanziaria del movimento sionista mondiale, come dell’Agenzia Ebraica). Dal 16 ottobre 1955 al 31 dicembre 1964, Sorani svolse le funzioni di segretario della Comunità ebraica di Firenze. Nel 1967 terminò di scrivere il testo delle sue memorie (pubblicato solo nel 1983 per difficoltà con gli editori, dopo la morte dell’A.).[45] Come persona non fu un “diplomatico”, ed espresse critiche verso il Vaticano. Morì a Firenze. Il “Fondo Settimio Sorani” è conservato a Milano, presso la Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea. Sorani, nelle sue memorie fece diversi riferimenti.

Sulla situazione di Fiume annotò: «Sugli ebrei di Fiume e Sussa sono rimaste solo poche notizie ed anch’esse imprecise nelle date e discordanti circa il numero delle persone. Il 16 Agosto 1941, il Segretario della Comunità di Fiume, Sig. Francesco Cantori[46], telefonò a Roma, scongiurando di intervenire presso il Ministero perché si evitasse che i profughi colà esistenti fossero respinti nell’interno della Croazia. I profughi erano circa 400, ma molti, per non essere presi, non si presentavano come sarebbe stato prescritto, né all’anagrafe, né in Questura. Altri fuggivano a piedi per raggiungere illegalmente Trieste. Erano come impazziti e, pur di sfuggire alla deportazione, poiché sapevano che cosa ciò volesse dire, affrontavano gravi pericoli e cadevano vittime delle speculazioni di profittatori che, dietro esosi compensi, promettevano loro di metterli in salvo.
È, forse, a seguito di questa telefonata che l’autore di queste note, preparò un appunto manoscritto per Dante Almansi
[47] perché intervenisse presso il Ministero. Questo manoscritto potrebbe però essere opportunamente collocato anche un anno dopo, poiché in esso si fa cenno alla decisione di respingere tutti i profughi ebrei in Croazia, decisione che veniva applicata benché il Questore Dr. Genovese sapesse, o proprio perché sapeva, che coloro che venivano così spietatamente respinti andavano incontro a morte certa e terribile. Un altro pro-memoria, anch’esso di data incerta, tratta lo stesso argomento, insistendo sulla richiesta che fosse sospesa la tragica decisione di respingere in Croazia i profughi ebrei. Tale pro-memoria potrebbe essere collocato nel Luglio ’42 (…)». [48]

 

Il riferimento al dr. Giovanni Palatucci

Nelle sue memorie, il signor Sorani fa poi un esplicito riferimento alla persona e all’operato del dr. Giovanni Palatucci. Si trascrive il testo:

«Fiume.
(…) Un immediato, spontaneo e quanto mai prezioso aiuto essi (gli ebrei) lo ebbero da un funzionario della R. Questura. Costui era il Dr. Giovanni Palatucci, capo dell’ufficio stranieri (…).  Il Dr. Palatucci era, tra l’altro, cattolico credente ed era convinto che non si debba obbedire ad una legge del potere civile in contrasto con la legge suprema della difesa e del rispetto dell’umanità. Quando ebbe coscienza che nelle sue mani di funzionario addetto al controllo e alla vigilanza degli stranieri, stavano, in gran parte, le sorti degli ebrei di Fiume, non esitò un istante a prendere posizione conforme alla sua coscienza di cristiano e di italiano. Senza la sua adesione, assai difficile sarebbe stata l’azione dei patrioti fiumani.

Imperava, nel vero senso della parola, a Fiume, quale prefetto, un intimo gregario di Mussolini, tale Temistocle Testa, quello stesso che Mussolini, dopo lo sbarco degli alleati in Sicilia, spedì precipitosamente a Palermo col titolo di Alto Commissario Plenipotenziario, onde, facendo uso della sua esperienza di repressore sanguinario che innumerevoli lutti e rovine arrecò alla provincia di Fiume ed ai territori finitimi, rabberciasse la situazione che appariva, colà, catastrofica.
Il Testa aveva dato categoriche disposizioni alla Questura per la persecuzione degli ebrei. Il Dr. Palatucci si assunse la responsabilità di rendere inoperanti gli ordini: provvide cioè ad allontanare da Fiume, alla chetichella, gli ebrei stranieri che avrebbero dovuto essere arrestati e deportati. Ufficialmente egli li faceva apparire irreperibili, mentre poi, munitili di documenti alterati che li facevano apparire “ariani”, li avviava dapprima ad un suo zio, Vescovo di una diocesi del Sud, il quale provvedeva a sistemarli un po’ dappertutto, poi ai centri che nel frattempo si formavano nell’Abruzzo, nel Molise ecc. per l’ospitalità ai cosiddetti sfollati di guerra, sotto il cui nome potevano facilmente passare i perseguitati razziali (…).

Nonostante che fosse noto che in Italia il fascismo perseguitava gli ebrei, a Fiume, dopo il promulgamento delle leggi razziali, continuò l’afflusso segreto degli ebrei profughi dall’Europa invasa. Questo afflusso prese proporzioni ampie dopo l’invasione nazi-fascista della Jugoslavia, che mise in pericolo gli ebrei stranieri, precedentemente rifugiatisi. Sorse lo Stato Croato. Una parte del suo territorio fu occupato, per motivi strategici, dalla Seconda Armata Italiana, ma le Autorità locali dipendevano dal Governo che aveva adottata la politica razziale hitleriana, per cui si scatenò anche lì, un’orrenda guerra contro gli ebrei. Questi cercavano allora salvezza attraverso quello che ormai era noto sotto il nome di “canale” di Fiume. Secondo le disposizioni del prefetto Testa, che fungeva pure da Commissario di Stato, gli ebrei fuggenti dalla Croazia nel territorio italiano dovevano essere colti come in trappola. Grazie invece alla collaborazione dei soldati e degli ufficiali della Seconda Armata, la trappola non funzionò, ma agì invece il “canale” di Fiume, noto segretamente negli ambienti della Seconda Armata.

Il concorso dei soldati e degli ufficiali della Seconda Armata all’azione di salvataggio degli ebrei venne portato a conoscenza della prima conferenza ebraica mondiale, tenutasi dopo la Guerra a Londra, nell’Agosto del 1945 dal Delegato Raffaele Cantoni, il quale rivelò che ben 5.000 ebrei erano stati da essi posti in salvo… Dopo l’8 Settembre 1943 mutò la base delle condizioni di Fiume… Il C.L.N. fiumano esortò il Dr. Palatucci a restare al suo posto onde il “canale”, continuasse a funzionare… Così il Dr. Palatucci divenne il “Dr. Danieli” del Movimento di Liberazione Nazionale.

Dopo l’8 Settembre la Seconda Armata abbandonò il territorio jugoslavo che venne occupato ora dai partigiani di Tito, ora da croati ustascia, ora dai tedeschi. Nell’Ottobre 1943 i tedeschi effettuarono il primo attacco contro la Comunità Israelitica di Fiume… Le disposizioni prese subito dal Palatucci per parare i colpi dei tedeschi e dei fascisti (…) permisero di ottenere il controllo dei preparativi delle SS e dell’ufficio politico contro gli ebrei.

Intanto egli sollecitava l’esodo degli ebrei presenti in città. Il risultato definitivo fu che la maggior parte degli ebrei di Fiume scampò alla morte. Perirono coloro che indugiarono sperando nella pietà dei barbari. Nel Settembre 1944 il Dr. Palatucci venne prelevato nella sua casa dalle SS e dagli sbirri della Questura repubblichina (…) nel 1945 venne deportato in un lager della Germania nel quale morì durante la prima metà dell’Aprile mentre la liberazione recata dalle armi dei vittoriosi e gloriosi eserciti anglo-americani e sovietici si avvicinava.

Il Comitato ebraico di studi in occasione del decimo anniversario della liberazione il 18 Aprile 1955 onorò la memoria di Palatucci-Danieli con una medaglia d’oro e in Israele una via fu intestata al suo nome ed un parco fu dedicato alla sua memoria».[49]

 

I riconoscimenti

A Palatucci venne dedicata una strada a Ramat Gan, vicino Tel Aviv (1953). Gli fu poi assegnata una medaglia d’oro alla memoria dall’Unione delle Comunità Israelitiche d’Italia (1955). Nello stesso anno, il politico di religione ebraica Antonio Luksich Jamini, nato a Fiume[50],  pubblicò un articolo dal titolo Il salvataggio degli ebrei a Fiume durante la persecuzione nazifascista. In seguito, venne conferito a Palatucci il titolo di “Giusto tra le Nazioni” dal Memoriale Ebraico dell’Olocausto Yad Vashem (1990). Seguirono altre iniziative.  

 

Le notizie divulgate nel 2013

Nel 2013, il Centro “Primo Levi” comunicò ai media (non agli storici) che «Giovanni Palatucci fu un pieno esecutore delle leggi razziali». Quanto riportato venne scritto da Natalia Indrimi (non studiosa di Palatucci), direttrice del Centro, in una lettera pubblicata dal “New York Times” (2013). Il testo prosegue: «e, dopo aver prestato giuramento alla Repubblica Sociale di Mussolini, (Palatucci) collaborò con i nazisti». Il Centro ha spiegato, inoltre, che la deportazione di Palatucci non fu decisa dai nazisti per l’opera a favore degli ebrei, ma per aver passato ai britannici i piani per l’autonomia di Fiume. Riguardo al vescovo mons.  Giuseppe Maria Palatucci (1892-1961; francescano conventuale), zio di Giovanni (operò con il nipote a tutela di più ebrei) il giudizio è drastico. Indrimi e il suo Centro spiegano che fu proprio lui a “costruire” in modo non chiaro il mito: «Tutto iniziò nel 1952, quando lo zio vescovo raccontò questa storia per garantire una pensione ai parenti dell’uomo».

 

Le reazioni

La posizione del Centro “Primo Levi” ha destato sorpresa in molte persone, anche in Israele. Per vari motivi.

1. Non fu il Centro a promuovere lavori su Fiume e Palatucci. Furono degli studiosi in Italia (2003). L’iniziativa non ebbe un particolare seguito. L’attenzione dei media fu tenue. Così, a New York, qualcuno decise di ritornare sull’argomento in modo più accentuato.

2. L’alto numero di documenti “inediti”, ai quali fa riferimento il Centro, è in realtà noto a più storici. Uno   strumento conoscitivo rimane a tutt’oggi il database online dello Yad Vashem (Gerusalemme). L’Archivio in questione riporta le schede delle oltre quattrocento vittime ebree che vivevano a Fiume. I nazisti decimarono la loro Comunità (formata da cinquecento persone ca.). Digitando “Fiume” (nello spazio riservato al luogo di residenza), appaiono i nomi delle persone trucidate, con l’età ed altri dati essenziali.

3. È noto, poi, che chi operò a favore degli ebrei, fece in modo di non destare sospetti, di non attirare sguardi, di evitare i controlli, la censura, i delatori, di non mettere niente per iscritto. Per questo motivo, una ricerca per il Vice Capo della Polizia italiana non poté trovare elementi in fascicolo personale.

4. Palatucci, nelle sue iniziative umanitarie, non agì mai da solo.  Si appoggiava a terzi. Studiare quindi la sua figura (e i movimenti) escludendo una rete di solidarietà è un metodo assolutamente non storico.

5. I tentativi umanitari alcune volte riuscirono, in altre situazioni ebbero un esito parziale, in varie occasioni non arrivarono a buon esito (cf documento che  si riferisce a Palatucci scoperto da chi scrive con l’aiuto del Prefetto di Trieste e del Responsabile dell’Archivio di Stato di Trieste)[51]. In ulteriori casi questi tentativi furono neutralizzati  con arresti e deportazioni. Tutto questo è conosciuto dagli storici. È noto anche agli studiosi la triste attività di chi volle lucrare sulle disgrazie altrui (operazioni via mare), e su chi (specie i passatori di montagna) strinse accordi di morte con le autorità naziste.

6. Non è possibile calcolare il numero dei salvati da Palatucci (che comunque ci furono[52]). Vari studiosi hanno cercato di farlo, con l’aiuto di archivisti, di storici,  di esponenti del mondo ebraico, di testimoni del tempo. Al riguardo, ci si è resi conto della co-presenza di molteplici variabili. Inoltre, di alcune vicende non si conosce l’esito. In tale contesto, la prudenza suggerisce cautela  nell’indicare la cifra complessiva degli ebrei salvati.

7. I giuramenti a organismi statali (in un conflitto con più fronti) non implicarono necessariamente, in foro interno, delle sostanziali adesioni ideologiche. Molte volte (non sempre) costituirono una strategia per continuare a lavorare in ambienti ove si operò alla luce ma anche in sordina.

8. Dai documenti conservati in più Archivi (Londra, Washington) risulta che i britannici erano già a conoscenza del moto autonomista presente a Fiume. Per tale motivo, pare debole l’insistenza su un ruolo chiave di Palatucci in merito a questioni di autonomia locale.

9. L’uso di canali non autorizzati da parte di Palatucci riguardò, in realtà, varie situazioni (cit. nelle memorie dei sopravvissuti). In particolare, il telex di Kappler (10 gennaio 1945), ricordato dal Capo della Polizia del tempo Eugenio Cerruti (a sua volta informato dal Prefetto Spalatin[53]), fa riferimento a «contatti informativi col servizio informativo nemico». Non indica questioni di autonomia locale. I nazisti, quindi, stavano seguendo non la pista degli autonomisti (alla quale erano invece molto interessati i titoini) ma un sistema di segnalazioni che includeva anche il dramma dei perseguitati e dei profughi (ciò risulterà  chiaro dagli eventi successivi).

10. Mons. Palatucci, vescovo di Campagna (prov. di Salerno), segnalò la figura del nipote in più circostanze. Ma non nel 1945. Solo in anni successivi. Ad assumere la prima iniziativa furono esponenti della Comunità ebraica.

11. A Campagna c’era un campo di internamento costituito dalla caserma San Bartolomeo (ex convento dei Domenicani), e dalla caserma Immacolata Concezione (ex edificio claustrale degli Osservanti). In quest’area, i Palatucci cercarono di inserire alcuni ebrei. Consultando l’Archivio locale, e visitando il museo, è possibile capire le differenze esistenti tra questo campo e altri luoghi d’internamento (in nord Italia). Il 29 ottobre 1941 l’allora segretario del Partito Nazionale Fascista, Adelchi Serena (1895-1970), scrisse una lettera all’allora Capo della Polizia con la quale si lamentava della «troppa libertà in cui vivono gli internati ebrei del campo di concentramento di Campagna» e chiese «provvedimenti conseguenti da parte delle forze di polizia del regime».
12. Dall’Archivio di Fiume, i documenti relativi al periodo successivo all’8 settembre 1943 sono stati sottratti. Il fascicolo personale di Palatucci (consultabile) è vistosamente carente di molti documenti essenziali. Ci sono le note burocratiche delle sue domande di trasferimento, le richieste di permessi, la nota positiva per essere «di ottima condotta morale, politica e sociale, iscritto al Partito Nazionale Fascista dal 23 marzo 1928», la promozione a vice-commissario aggiunto (in data 28 luglio 1940, con decorrenza 16 maggio).

13. Nell’Archivio di Fiume esiste un solo documento successivo all’8 settembre 1943. È una lettera del 29 febbraio 1944 indirizzata dal reggente della questura, Roberto Tommaselli, a Carlo Paknek, consigliere germanico per la provincia del Carnaro e, per conoscenza, al prefetto (la copia consultata è quella di pertinenza della prefettura, protocollata il 3 marzo). Si tratta di una protesta perché Palatucci il 26 febbraio era stato convocato dal commissariato tedesco e interrogato sul possesso di una radio appartenuta a un’ebrea di nome Weisz. Nel frattempo, un civile e un agente tedesco erano andati a casa sua chiedendo informazioni sulla medesima radio alla proprietaria dell’appartamento. Il dirigente della questura protesta per il modo irriguardoso utilizzato dai tedeschi nei confronti di un dirigente di polizia italiano.

14. Secondo l’opinione di diversi storici, i documenti che non si trovano nell’Archivio di Fiume, sono probabilmente conservati a Belgrado, presso l’Archivio militare. Qui, si trovano altri incartamenti della Questura e della Prefettura di Fiume. Belgrado, comunque, nell’arco di più anni, non ha  manifestato una particolare sensibilità per ricerche su Palatucci.

15. Comunque, da una sommaria ricognizione fatta da Lijubinka Karpowicz (storica di Fiume) sui fondi di Belgrado accessibili ai ricercatori, è emersa solo una richiesta di ricerca del 25 novembre 1946 (un anno e nove mesi dopo la morte di Palatucci). Il Comitato antifascista del 259° battaglione prigionieri di guerra chiede alla sezione italiana per i prigionieri di guerra, a Belgrado, di voler «comunicare se il compagno Palatucci Giovanni di Felice è prigioniero in Jugoslavia, in quale campo o se è rimpatriato». Una nota a mano del 2 dicembre ordina: «Accontentare questo Comitato antifascista e poi rispondere».

 

Uno stile non condivisibile

Ciò che ha motivato perplessità verso il Centro “Primo Levi” è stata la linea della Indrimi. Prima ha divulgato delle informative a nome del Centro che hanno procurato danno morale alla figura di Palatucci.  Poi ha inviato una durissima lettera al “New York Times”. Ha scritto al Museo della Shoah di Washington. Ha rilasciato interviste. Ha insistito ancora su siti internet. In alcuni casi ha affermato di parlare a titolo personale, in altri casi di esprimere la posizione del Centro. Dopo tutte queste iniziative, quando alcuni storici le hanno chiesto di prendere visione almeno dei documenti che il Centro riteneva essenziali per “accusare” Palatucci, la Indrimi prima ha risposto che ognuno li poteva trovare da solo negli archivi pubblici. Poi, ha dichiarato che non potevano essere divulgati perché erano ancora allo studio, perché si stavano ancora traducendo, perché i saggi che li accompagnano non erano pronti, perché non riguardavano solo Palatucci. A chi scrive, dopo lo scambio di alcuni messaggi, ha chiuso la comunicazione.

 

Le prese di distanza

In presenza di tale situazione, un numero significativo di studiosi della Shoah (de Canino, Di Francesco, Guiducci, Malini, Napolitano, Picariello, Preziosi, Viroli, et al.) è intervenuto per rivedere le fonti, mentre autori ebrei hanno pure scritto libri e articoli a difesa della memoria del dr. Palatucci. In particolare, è stato evidenziato un limite del Centro “Primo Levi”: non si accusa una persona morta in un campo di concentramento a 36 anni senza aver contemporaneamente pubblicato tutti i documenti di merito (a tutt’oggi il Centro non ha pubblicato  i documenti che afferma di possedere in gran numero). Si è anche preso atto che il comportamento della Indrimi non è sereno. Le parole con le quali ha descritto il comportamento di Palatucci sono, sul piano oggettivo, violente e diffamatorie. In tal senso, risulta molto più equilibrato lo studio dello studioso di fede ebraica Marco Coslovich[54], e molto più caute le dichiarazioni dello storico Michele Sarfatti, direttore della Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea (Cdec Onlus) di Milano.

 

La ricerca degli ebrei

L’accusa più grave, rivolta al reggente di Fiume, ha riguardato la denuncia di quest’ultimo di una famiglia ebrea nascosta sotto falso nome, in seguito a una richiesta della Questura di Ravenna (telegramma del 23 maggio 1944). Secondo il Centro “Primo Levi”, Palatucci avrebbe dovuto rispondere che essi non erano residenti a Fiume, e che non erano noti al suo ufficio, né lo erano presso la sua anagrafe. Invece l’informativa fu redatta in questi termini: «Trattasi di ebrei apolidi fiumani qui irreperibili che identificansi per…», con i dati anagrafici dei membri della famiglia. Il biglietto era firmato «Pel reggente Palatucci».

Il 23 maggio 1944 Palatucci era reggente della Questura da meno di due mesi. Non è difficile pensare che era sorvegliato (poco più di tre mesi dopo subì l’arresto). Il telegramma pervenuto alla Questura di Fiume non era “riservato-personale” a lui. Quindi ˗ essendo stata già controllata la richiesta da terzi ˗ il reggente non poteva mentire, negando che i nomi della famiglia ebrea fossero registrati nelle liste della Polizia e all’anagrafe. Di conseguenza, la risposta fornita “Per il reggente” non avrebbe potuto riportare null’altro che i dati di archivio. Inoltre, la data del biglietto, ‘urgente’ solo formalmente, è del 23 maggio 1944. L’arresto della famiglia era già avvenuto il 4 maggio. Unitamente a ciò, si rileva un altro dato. Dichiarare in quel momento una persona “irreperibile” significava comunque rendere molto complicate le indagini. In un’ora nella quale Fiume era accerchiata da più realtà ostili, era difficile pensare a ricerche accurate sugli “irreperibili”.

 

L’aiuto agli ebrei non residenti

Esiste, poi, un altro punto che il Centro “Primo Levi” svalorizza. Giovanni Palatucci, essendo responsabile dell’ufficio stranieri, interagì soprattutto con ebrei non residenti. Le operazioni riguardanti i residenti erano affidate a un personale che si poteva orientare grazie al registro dello stato civile. Il lavoro seguiva una metodica. Era basato su schedature, controlli, complicità e paure. Per una ricerca storica corretta, uno strumento rimane il data base dei fascicoli del Fondo Questura dell’Archivio di Stato di Fiume, ma anche i fondi depositati in altri Archivi (es. Trieste).

 

False testimonianze?

Non è da tacere, ancora, un aspetto. I  membri del Centro cit  hanno cancellato ogni testimonianza a favore di Palatucci (cf anche i lavori della Commissione di studio di Milano[55]). Tra i vari testi emergono figure significative. Se ne possono ricordare alcune:

˗ Franco Avallone. Figlio di Raffaele Avallone (morto infoibato nel 1945). Raffaele era nato a Salerno. Guardia scelta di P.S.. Conobbe Palatucci a Genova e lavorò con lui a Fiume. Lo aiutò in operazioni “non ufficiali” a favore di ebrei.

˗ Alberino Palumbo (nato nel 1924).  Attendente (appuntato) di Palatucci. Collaborò in operazioni a favore di ebrei.

-˗ Alberto Remolino (nato nel 1917). Nato a Campagna. Soldato di leva a Fiume, presso il 26° reggimento fanteria (vi restò fino al giugno 1945). Lavorò come sarto. Facilitò un collegamento tra Giovanni Palatucci (Fiume) e lo zio vescovo (Campagna). Affrontò rischi (periodo di guerra). Il suo ruolo di intermediario risulta da alcune azioni umanitarie (non ebbero sempre esito positivo).
˗ Giuseppe Veneroso (1921-2009). Nato a Pisciotta. Finanziere. A diciotto anni prestava servizio alla frontiera italo-jugoslava (Buccari). Inquadrato nella compagnia di Sussak (dal 1° maggio 1941 all’8 settembre 1943). Fu testimone del flusso clandestino di ebrei in fuga, e delle protezioni in loco. «In entrambi i posti di servizio ricordo perfettamente ˗ scrive Veneroso ˗ che, durante le lunghe notti, agenti della Pubblica Sicurezza accompagnavano gruppi di civili al nostro posto di guardia, per farli espatriare in sordina. Tutti quanti erano provvisti di lasciapassare a firma dell’allora commissario Palatucci e tutti eravamo a conoscenza che erano ebrei in fuga» .

Secondo il Centro cit. questi testi sono da ritenere inattendibili.

 

La testimonianza di Rodolfo Grani

Nel 1952, un ebreo già residente a Fiume, raccontò in Israele la propria storia. Si chiamava Rodolfo Grani (Granitz). In un articolo pubblicato a Tel Aviv, riferì del suo internamento a Campagna. Ricordò interventi dei Palatucci (nipote e zio vescovo) a favore di alcuni ebrei. Fornì indicazioni sull’interazione tra Giovanni Palatucci e il vescovo di Fiume, mons. Ugo Camozzo (1892-1977).[56]

 

La ricerca storica su mons. Camozzo

L’intesa tra mons. Camozzo e il dr. Palatucci (le carte di merito sono depositate negli Archivi diocesani di Rijeka, Pisa e Napoli) trova riscontro anche in due lettere che Camozzo indirizzò al vescovo Palatucci.[57] La prima è datata 11 luglio 1945. Ecco il testo: «Eccellenza Reverendissima,  soltanto ora sono in grado di darLe notizie del Dr. Palatucci, Commissario di P.S. a Fiume. Purtroppo esse sono dolorose. Fu trasportato, non ricordo esattamente quando, nel campo di concentramento di Dachau (Baviera) e di là ebbi sue notizie. Pochi giorni fa però tre rimpatriati da quel campo vennero da me. Chiesi ad essi notizie del caro Dottore ed uno mi assicurò che egli è deceduto a Dachau. Non ebbi altra possibilità di controllo e di conferma, solo il fatto che egli dimostrava di conoscerlo personalmente. Neppure sulla veridicità della persona potei indagare perché era di passaggio da me e prima non l’avevo conosciuto. Sono convinto che il buon Dr. Palatucci è stato internato, perché vittima del suo buon cuore per cui non mancava di aiutare quanti poteva, specialmente se oppressi dalle leggi razziali. Egli ha lasciato un ottimo ricordo a Fiume che serva riconoscenza per lui (…)».

In una seconda lettera (30 agosto 1945), Camozzo trasmette altri dati: «Eccellenza Reverendissima,  Come ho già comunicato il Dr. Palatucci Giovanni è stato internato dai Tedeschi a Dachau, credo perché aveva cercato di mitigare l’asprezza delle disposizioni antisemitiche. Ebbi di lui notizia dal campo di concentramento, perché eravamo in ottimi rapporti. Poi silenzio. Per essere completo devo dolorosamente aggiungere a V. E. che alcuni prigionieri reduci furono di passaggio da me ed uno di essi affermò che il Dott. Palatucci era deceduto nel campo di Dachau. Non ho altri dati, né conosco la persona che fa tale dichiarazione. Purtroppo però ho avuto l’impressione che la notizia fosse vera. Il Dr. Palatucci ha lasciato ottimo ricordo di Sé a Fiume. In un tempo tanto difficile Egli ha saputo aiutare tanti infelici ed io stesso esperimentai la sua umana comprensione di tante sofferenze e cristiana carità (…)».

 

Niel Sachs di Gric

Esiste anche la testimonianza di un avvocato, il barone Niel Sachs di Gric (ebreo fiumano di origine ungherese). Fu il legale di fiducia della Curia vescovile di Fiume. Nelle sue dichiarazioni ha confermato l’esistenza di contatti tra il dr. Giovanni Palatucci e il vescovo Camozzo.

 

Una sottolineatura

Nel contesto fin qui delineato, può essere utile evidenziare un fatto. Ogni ricerca storica richiede valutazioni serene. I testimoni sopra cit. dimostrarono nell’arco della loro esistenza una linea morale mai contestata da terzi. Dalle affermazioni a favore di Palatucci non ricavarono benefici.  Mettere, quindi, in dubbio le loro parole potrebbe rivelare una rigidità mentale, con possibile deriva di intolleranza. Unitamente a ciò, non devono essere trascurati vari interventi ebraici a favore di Palatucci. Tra questi, quelli di Elia Sasson, ambasciatore d’Israele a Roma (1953), dell’Unione delle Comunità Israelitiche d’Italia (1955), dell’avv. Paolo Santarcangeli (1987)[58], di Adolfo Perugia, di Anna Foa, et al.

 

Le evidenze

A ben vedere, le testimonianze di chi operò con Palatucci per tentare di salvare delle vite umane, convergono su taluni punti-chiave. Sono agli atti, ad esempio, le dichiarazioni di più persone di fede ebraica.
˗Elena Ashkenasy Dafner Rehov e parenti (Yad Vashem; istruttoria su Palatucci; Archivio Dipartimento Giusti, file n. 4338). Testimonianza autografa. Il documento è datato 10  luglio 1988. Fu redatto a Tel Aviv.

-Rozsi Neumann: testimonianza in “Israel”, n. 39, 18 giugno 1953; lettera del 26 giugno 1953 a mons. Palatucci: «(…) anch’io e mio marito apparteniamo a quei ebrei che sono stati tanto aiutati da questo veramente nobilissimo uomo»

˗Salvator Konforti (cognome poi cambiato in Italia in Conforty), ebreo sefardita, di radici spagnole, e Olga Hamburger, askenazita, dell’Est Europa. Erano i genitori di Renata Conforty. Questa, a 71 anni, ha ripetuto la sua testimonianza nel 2013.

˗Berger (famiglia). Sull’interazione tra queste persone e Palatucci, esiste, tra l’altro, un contributo del ricercatore Aldo Viroli: Palatucci e la famiglia Berger. Un po’ di chiarezza sulla vicenda di un gruppo di ebrei fiumani rifugiati in Romagna.

˗Elizabeth Quitt Ferber (1913-2005) e la sorella Anna. Racconta Elizabeth: «(…) con nostro stupore, ci indicò una serie di località da raggiungere come internati liberi. Alla fine la nostra scelta cadde su Sarnico, sul lago d’Iseo, e il dott. Palatucci ci assicurò che saremmo andati là. Non so come riuscì ad esaudire questa nostra richiesta, fatto sta che noi andammo direttamente a Sarnico. Come noi, ha aiutato una moltitudine di persone».

˗Carlo Selan (ingegnere) e moglie. In una lettera del 21 dicembre 1940 Giovanni Palatucci raccomanda allo zio vescovo di interessarsi e d’intervenire riguardo ad alcuni ebrei che il poliziotto definisce «miei protetti». Tra questi c’è il nome di Carlo Selan. Nel 1991, Selan scrisse da New York in un articolo: «Tutta la mia famiglia e ognuno che è sfuggito a Hitler e agli Ustascia, ha trovato un porto di serenità in Fiume solamente per la gentilezza e l’ammirabile personalità di Giovanni. Se non fosse stato per lui, ben pochi avrebbero potuto rimanere vivi oggi».

 

La Shoah ungherese

Attraverso il database dello Yad Vashem è possibile digitare “Salerno” (o “Altavilla”). Appaiono 32 nomi di ebrei. Altri nomi, inoltre, sono presenti in una serie di documenti conservati presso gli archivi dello stesso Centro. La località di nascita riportata dalle schede e nei documenti è Altavilla Silentina. Come dimostrato dallo storico della Shoah Nico Pirozzi, quelle persone facevano parte della Comunità ebraica di Lenti (Ungheria). Quest’ultima, contava 52 individui in tutto (i restanti figurano anch’essi, purtroppo, tra le vittime della Shoah; per trovare i loro nomi digitare “Lenti” nel database). Pirozzi documenta come fossero stati Giovanni Palatucci e lo zio vescovo a sostenere il piano di salvataggio degli ebrei di Lenti. Attraverso Remolino (cit.), mons. Giuseppe Maria Palatucci fece pervenire al nipote diversi (non si conosce il numero esatto) certificati di nascita e di residenza trafugati dal municipio di Altavilla Silentina (Salerno). I documenti pervennero (tramite un altro corriere) alla Comunità ebraica di Lenti, che (nella primavera del 1944) tentò di utilizzarli per raggiungere Fiume. Il progetto fallì. I nazisti arrestarono gli ebrei della cittadina ungherese, la maggior parte dei quali fu eliminata ad Auschwitz-Birkenau. In base alle procedure di interrogatorio (con tortura) dei nazisti, è probabile che il nome del vice-commissario aggiunto di Fiume sia emerso proprio in seguito agli arresti avvenuti a Lenti.

 

L’archivio di Yad Vashem

Nell’Archivio di Yad Vashem sono pure conservate le schede di ebrei ungheresi che risiedevano in città diverse da Lenti, muniti dei certificati contraffatti dai Palatucci e purtroppo deportati nei lager. Per esempio: Izso Eppinger, viveva a Nagykanizsa; Arpad Deutsch, abitava a Zalaegerszeg; Jolan Rosenberger, risiedeva a Papa. In tale contesto, tenuto conto che l’operazione “Altavilla Silentina” si svolse in diverse località ungheresi, ci si chiede se in alcuni casi essa abbia ottenuto il risultato che i Palatucci speravano. Un punto, però, rimane evidente. Alcuni ebrei ungheresi raggiunsero realmente la località di Altavilla Silentina, passando per il campo di internamento di Campagna, ove operava mons. Palatucci. Lo attesta il ricercatore Oreste Mottola nel libro I paesi delle ombre. Il testo è basato su documenti conservati nell’Archivio Storico della Biblioteca Civica di Altavilla Silentina. Se è vero che numerose richieste di espatrio in Sud America (e altrove) non andarono a buon fine, altre ˗ invece ˗ consentirono agli ebrei di Campagna e di Altavilla di sottrarsi alle persecuzioni. Lo stesso Centro “Primo Levi” ha riconosciuto che le vicende di Altavilla Silentina sono complesse e necessitano di ulteriori approfondimenti.

 

Altri dati forniti da Yad Vashem

Sempre con riferimento a quanto è conservato presso il Memoriale Yad Vashem, si deve pure ricordare la presenza di files ove è riportato il fatto che «nel settembre 1943 il Dr. Palatucci aderì al Movimento di Liberazione Nazionale, assumendo il nome di ‘Dr. Danieli’, proseguendo nella sua mirabile opera di salvataggio di migliaia di perseguitati».

 

Il vescovo Giuseppe Maria Palatucci

La linea del Centro “Primo Levi”, che nega azioni del reggente a favore degli ebrei, delegittima  pure la testimonianza dello zio vescovo. Però, il carteggio tra mons. Palatucci e le autorità del tempo (1276 lettere), unitamente a quello con il nipote, attesta come vari ebrei, facilitati dal dr. Palatucci a raggiungere Campagna, furono poi aiutati in loco, e aiutati  ad affrontare il viaggio verso il Sud America (lettere di raccomandazione firmate dal vescovo). In tale contesto, riveste un rilievo non debole una lettera di Giovanni Palatucci indirizzata allo zio, datata 21 dicembre 1940. Si riporta il testo:

«Carissimo zio, Vi scrivo, come al solito in fretta. Gradirei notizie della pratica per il mio richiamo. Vi mando delle scarpe da far pervenire a casa alla prima occasione. Per quanto riguarda i miei protetti, la situazione è la seguente: 1. Ermolli Adalberto ha presentato domanda di trasferimento in un comune della provincia di Perugia, Pesaro o Chieti. Credo che lo interessi Chieti e in questo senso si è già interessato. Per lui sarà quindi il caso d’interessarsi solo se Voi abbiate la possibilità di intervenire ugualmente in modo efficace per gli altri, diversamente, non è opportuno sciupare delle possibilità che potrebbero essere utilmente impiegate, per questo vi ricordo i nomi: 2. Braun in Eisler Dragica (Carolina) e figlia, Eisler Maria: nipote. Jurche Nak. Selan ing. Carlo e moglie. Eisner Lotta con due bambine. Essi puntano alla provincia di Perugia o Pesaro. A me interesserebbe una destinazione in tali province, perché penso che Voi mi farete pervenire, a suo tempo, una raccomandazione per il vescovo del luogo, o chi per lui, che potrebbe agevolarvi sia presso la questura per una buona assegnazione nell’ambito della provincia o per una buona sistemazione, magari grazie all’interessamento a mezzo parroco. Per il momento, occorre appoggiare nel più efficace dei modi la loro domanda, che verrà presentata fra qualche  giorno.

Io Vi informerò tempestivamente, e Voi vorrete, poi, interessare qualcuno, perché segnali la cosa nel migliore dei modi alla questura. L’Ermolli l’ha già presentata ed io ho già scritto oggi, ma la lettera partirà fra qualche giorno. Per quanto riguarda lui, se Voi avete la possibilità di interessare persona diversa da quella che interesserete per gli altri, fate pure, diversamente evitiamo di danneggiare tuitti nel desiderio di tutti aiutare. Vi ringrazio per l’assistenza che mi prestate per un’opera di bene (…)».

Le carte di mons. Palatucci sono conservate presso la “Biblioteca Fra Landolfo Caracciolo”, San Lorenzo Maggiore (Napoli), e presso l’Archivio Segreto Vaticano.

 

L’arresto e la deportazione

Un punto sottolineato dal Centro “Primo Levi” riguarda il motivo dell’arresto e della deportazione di Palatucci. Il Centro, in particolare, trascrive il testo di un telegramma del colonnello Kappler, dove si afferma che Palatucci fu arrestato per avere mantenuto contatti col servizio informativo nemico. I ricercatori dimenticano che dopo il 3 settembre 1943 (data dell’armistizio di Cassibile e inizio dell’occupazione tedesca), gli ebrei furono definiti nel Manifesto di Veronastranieri e nemici”. Palatucci, anche sotto la R.S.I., operava a contatto con la DELASEM (testimonianza di Sorani). Nella primavera del 1944 aspettava gli ebrei della Comunità di Lenti (Ungheria), muniti di falsi certificati (risultavano nati ad Altavilla Silentina). Per quella, e per altre azioni, il poliziotto di Fiume era sicuramente colpevole, agli occhi dei nazisti, di aver mantenuto contatti con il nemico.

 

La questione del numero dei salvati

Esiste, in ultimo, una questione sollevata dal Centro “Primo Levi” anche con riferimento al numero degli ebrei salvati dal dr. Palatucci. Al riguardo, diversi studiosi (Ballarini, Bon, Coslovich, Pizzuti…) hanno cercato, prima di tutto, di individuare il numero di ebrei residenti e non residenti nell’area fiumana negli anni delle persecuzioni razziali.

1938: anno dell’entrata in vigore delle leggi razziali, a Fiume c’erano 1514 ebrei, di cui 300 stranieri. Si trattava del 2% (circa) della popolazione. I dati statistici del censimento del 22 agosto 1938 posero le basi per le campagne antisemitiche già in atto e furono una tappa fondamentale per le persecuzioni razziali.

1939: la storica Silvia Bon (2004, 2005) ha accertato l’allontanamento dal lavoro di ebrei già dal 1939, tanto che almeno 350 persone abbandonarono il territorio della provincia del Carnaro. Quelli rimasti cercarono ancora di far funzionare le strutture di una volta e sostituire quelle negate in seguito alle leggi razziali come la frequentazione della scuola: nell’anno scolastico 1938-1939 un Istituto Autonomo di Istruzione Media mantenne tutti i corsi delle varie scuole medie e quelli delle scuole di avviamento.

1940: il 22 giugno di quest’anno, il prefetto Temistocle Testa (1897-1949), con il questore Vincenzo Genovese (nato nel 1893; fortemente antisemita), dispose l’arresto degli ebrei considerati stranieri.

1941: a Fiume, Abbazia e Laurana il numero delle persone considerate ebree ammonta a 1362.

1943: alla caduta del fascismo (25 luglio), alcuni degli ebrei fiumani che si trovavano in Italia centro-meridionale sperarono di poter ritornare nelle proprie case finalmente liberi, ma l’illusione fu di breve durata.

1944: con la distruzione della Sinagoga fiumana in via Pomerio 31 (25 gennaio), a cui seguì (due settimane dopo) l’azione dei finanzieri per accertare la loro presenza e il patrimonio di quelli rimasti, ebbe inizio il pogrom degli ebrei di Fiume. Furono deportate 243 persone (la stragrande maggioranza di queste transitate per San Sabba e da qui deportate ad Auschwitz), delle quali fecero ritorno solo 19. Altre 96 furono arrestate in altre province italiane e finirono nei campi di ster­minio, dove si salvarono 16, mentre 7 morirono in stato di deten­zione. Su oltre settanta ebrei mancano informazioni precise.

1945: dal Litorale Adriatico, sottoposto all’autorità tedesca, l’ultimo treno della morte partì il 24 febbraio 1945.

 

Fine ostilità

La triste dimensione nota ˗ i dati rimangono frammentari ˗ della Shoah fiumana è, dunque, di 412 depor­tati e 380 vittime, tra cui trenta  bambini, alcuni di pochi mesi, i più grandi di 14 anni. Alla cifra di 380 era giunto nel 1999 Amleto Ballarini, presidente della Società di Studi Fiumani con il suo Il tributo fiumano all’olocausto.

 

Le variabili di flusso

Con riferimento a quanto cit., è necessario evidenziare anche delle variabili. Circa 1200 ebrei fiumani, tolti dagli internati in Italia, avreb­bero abbandonato volontariamente il territorio tra il 1938 e il 1943. Di con­tro, tra il 1941 e il 1943, vi fu un’im­migrazione dalle zone dei Balcani e dell’Europa centrale occupate dai nazisti, dove le leggi razziali veni­vano applicate in modo rigorosissimo. Molti ebrei, ad esempio, fuggivano dalla Croazia, e cercavano a ogni costo di arrivare a Fiume, per lo più in barca. La città, del resto, era crocevia anche “legale” di ebrei internandi, diretti verso l’Italia. Secondo la testimonianza di Arminio Klein, presidente della Comunità ebraica di Fiume, sopravvissuto all’Olocausto, sedici persone di origine ebraica superarono la guerra a Fiume. Alla fine del conflitto gli ebrei fiumani sopravvissuti alla tragedia della Shoah, contrariamente a quanto avveniva nelle altre comunità ebraiche d’Italia, non poterono far ritorno alle loro case perché tutta la provincia del Quarnaro era stata nel frattempo occupata dalle truppe del maresciallo Tito e annessa alla Jugoslavia. Qualcuno tentò di far ritorno in zona per cercare di recuperare i beni abbandonati, ma sparì dalla circolazione, e non se ne seppe più nulla.
In tale contesto, rimane significativo un dato: tra il 1938 e il 1943, oltre ai profughi stranieri, lasciarono l’Italia altri seimila cittadini ebrei italiani individualmente o per famiglie, in cerca di Paesi più accoglienti (Stati Uniti, America meridionale, terra d’Israele). Ciò avvenne sotto la forte pressione di una persecuzione burocratica e di un’intensa propaganda antiebraica della stampa.
Il calcolo, in definitiva, degli ebrei che furono aiutati (in più modi, e da diverse persone e organismi di assistenza anche ebraica) a fuggire dalle persecuzioni può essere elaborato tenendo conto:

-dei flussi sopra cit. (emigrazione),

-e di quelli che consentirono a un numero significativo di ebrei di trovare riparo nella penisola italiana.

 

L’apporto del dr. Palatucci

Dalle testimonianze raccolte negli ultimi decenni, e pubblicate in più studi, il contributo offerto dal dr. Giovanni Palatucci a Fiume in difesa degli ebrei, si articolò essenzialmente su alcune linee operative: 1] omissioni nell’applicazione di norme (es. registri non in regola, per i quali subì una nota di biasimo;  ritardi nel rispondere alle informative di altre Questure, in merito al rintraccio di intere famiglie ebraiche che al momento erano ricercate); 2] trasmissione di dati informativi a ebrei in fuga, mirate a evitare situazioni a rischio; 3] presentazioni di ebrei a interlocutori amici; 4] coperture di varia natura, inclusa la consegna di documenti non autentici (permessi di transito e passaporti); 5] ideazione di itinerari di salvezza con il supporto di terzi.

 

Sorani (numero dei salvati)

Sul tema degli ebrei salvati, esistono poi alcuni dati che vennero forniti da Settimio Sorani (cit.). Questi - già ricordato - indicò un “canale fiumano”. Fece il nome del dr. Palatucci.  Collegò quest’ultimo a un’opera di protezione degli ebrei. Annotò infine un risultato: cinquemila ebrei salvati. L’autore volle fare un chiaro riferimento a Fiume e a Palatucci perché a Trieste esistevano altri referenti.[59] Emergono in tale contesto alcune evidenze sottolineate da Sorani: 1] nel periodo bellico Fiume era una città di confine; 2] i numeri dei salvataggi indicati da Sorani sono legati in massima parte a una stima sugli ebrei in fuga dal regime degli ustaše; 3] Sorani, nel dare conto di 12.200 profughi “controllati” e trattenuti in campi posti nel territorio ove erano presenti truppe italiane al di là del confine (sfuggiti alle persecuzioni, e in parte salvati), ha scritto che «debbono aggiungersi un numero indeterminato di persone non registrate perché entrate in Italia illegalmente senza regolari visti d’ingresso»; 4] la porta d’ingresso in Italia era Fiume, dove il responsabile dell’ufficio stranieri, «provvedeva ad allontanare alla chetichella gli ebrei stranieri che avrebbero dovuto essere arrestati e deportati».

 

Una quantificazione? (numero dei salvati)

Sulla base delle ricerche effettuate, e tenendo conto anche degli studi realizzati da più storici (e da singoli autori a vario titolo), non sembra possibile indicare un numero esatto di salvati (direttamente o indirettamente) dal dr. Palatucci. Questi ci furono (esistono testimonianze non deboli), ma insistere sul voler divulgare dei totali “sicuri” rimane un percorso accidentato. Probabilmente, la testimonianza di Raffaele Cantoni e quella di Sorani ˗ legate al numero di salvati da Palatucci ˗ intesero fornire dati di orientamento (propendendo per “un alto numero”) e non risultati di rigorose sommatorie.

 

Qualche annotazione di sintesi

Con le informazioni ritrovate negli archivi italiani e in quelli esteri, pare difficile sostenere la tesi che Giovanni Palatucci non fu un “Giusto”. Lo stesso Memoriale dell’Olocausto Yad Vashem ha confermato, nel febbraio del 2015, il titolo di “Giusto” a Palatucci (comunicazione di David Cassuto, membro della presidenza). Inoltre, dall’Archivio Centrale dello Stato sono state individuate le relazioni del reggente (aprile-luglio 1944; alcune scritte poco prima che fosse arrestato) al capo della polizia Tullio Tamburrini (10 maggio 1944) e a Eugenio Cerruti (26 luglio 1944), al consigliere germanico per la provincia del Carnaro Carlo Pachneck (9 maggio 1943), al capo della milizia Chianese. Vi si può leggere e sentire allarme e disgusto per quello che accade, giudizi severissimi sul prefetto e i tedeschi, attenzione per i suoi uomini, amore verso l’Italia. Vi si trova pure la frase: “in materia di dirittura morale io rendo conto alla mia coscienza che è il più severo dei giudici immaginabile, e se necessario ai miei superiori gerarchici…”.[60] A questo punto, si possono forse sviluppare ulteriori approfondimenti riguardanti:

1] i flussi dei profughi; le azioni politiche clandestine inerenti Fiume e l’area circostante;

2] i canali resistenziali posti in essere da gruppi di oppositori;

3] le reti sotterranee di solidarietà, intra ed extra Fiume;

4] il numero dei salvati, alla luce di ciò che oggi si può acquisire (sugli spostamenti clandestini, non registrati in alcun documento, sarà sempre difficile conoscere i dettagli);

5] il numero dei tentativi non riusciti mirati a salvare ebrei;

6] il numero delle persone eliminate perché considerate vicine alle comunità ebraiche;

7] le informative dello spionaggio nazista, di quello della R.S.I., di quello Alleato, di quello titoino;  le figure di specifici collaborazionisti, di delatori.

Ma oggi, discutere su dati che rimangono comunque parziali (non tutto è documentato, molti atti si sono persi, i testimoni del tempo sono morti…) ha senso? Sì, se ciò consente: di evitare il trionfalismo, l’enfasi, la retorica, la mitizzazione; di accantonare i particolarismi; di rispettare maggiormente il metodo storico.

Rimane, comunque, un’esigenza. Quella di passare da una logica di morte (persecuzioni di regimi totalitari) a una prospettiva di vita (costruzione di un mondo nuovo). Quella, cioè, di transitare, tenendo conto delle tante voci che provengono dalla Shoah, verso progetti di vita in grado di rompere steccati, e di sfondare barriere. In tale contesto, il termine resistenza rimarrà sempre attuale. Perché sempre attuale resterà l’esigenza di dire no a ogni forma di violenza. Da qualsiasi parte questa provenga.[61]

 

 

 

[1] Presieduta dal  prof. Pier Luigi Guiducci (storico della Chiesa, docente presso l’Università Lateranense). Ha accolto contributi  di studiosi operanti in Italia e di referenti scientifici di più Paesi (Israele, Germania, Croazia, Regno Unito, Svizzera, USA…).

[2] Cf ad es.: P. Spirito, Nuovo dossier su Palatucci: “È stato un Giusto”, in: ‘Il Piccolo’, (Trieste) 21 aprile 2015. Redazione, Palatucci.Terminati a Roma i lavori della Commissione di studio, in: ‘Avellino’, 19  marzo 2015.

[3] Cf anche: https://www.peacelink.it/storia/a/14371.html.

[4] Un elenco di delatori è conservato presso il Museo della Liberazione di Roma.

[5] Govoni, Guidoni, Pisino, Lombardi, Sabatini furono traditi dal sottotenente delle SS italiane Mauro De Mauro, infiltrato in qualità di delatore in Bandiera Rossa dai nazifascisti.

[6] Testimonianza di Giovanni Heimi  Wachsberger, arrestato il 15 aprile con la madre per delazione di Plech (“peraltro non ebreo”). Cf : A. Scalpelli (a cura), San Sabba. Istruttoria e processo per il Lager della Risiera. Volume secondo. ‘I documenti’, Mondadori, Milano 1988, p. 76.

[7] Ad es. con rif. a Fiume: Un diario - http://www.isses.it/diario4occhi.htm. Sul prefetto Temistocle Testa è utile il sito: http://www.montesole.eu/cms/eventim/2-non-categorizzato/229-don-fornasini-testa.html.

[8] Sezione Z (amministrazione centrale; Coblenza, Berlino), Sezione R (Germania nazista; Berlino), Sezione MA (Wehrmacht e Waffen-SS; Friburgo in Bresgovia).

[10] Fucilato il 14 giugno 1945 a Grobnico (Fiume).

[11] Pubblicata il 26 luglio 1937.

[12] Con il grado di Volontario Vice Commissario Aggiunto.

[13] Proveniente da Pavia. Aveva assunto l’incarico nel gennaio del 1934 in quanto prefetto di carriera.

[14] Giovanni Gentile (1875-1944). Esponente del neoidealismo filosofico.

[15] In: G. Raimo, A Dachau, per amore. Giovanni Palatucci, Dragonetti, Montella 1989 (1992), p. 58.

[16] Fonte: lettera del Dott. Giuseppe Reina, Presidente del Circolo Svizzero di Trieste al prof. Pier Luigi Guiducci, Datata 15 febbraio 2019. Archivio prof. Guiducci, fascicolo ‘Giovanni Palatucci’.

[17] Cf anche:  Aurelia Gruber Benco (a cura), ‘Antologia di Umana, rivista di politica e di cultura, 1951-1973’, Edizioni di ‘Umana’, Trieste 1986,  p. 59.

[18] Polizia politica segreta del regime.

[19] P. Vanzan, Giovanni Palatucci, in: ‘La Civiltà Cattolica’, 2000 III, quaderno 3602, p. 124, nota 8.

[20] Nel 1938 diventa prefetto di Fiume il dr Temistocle Testa (1897-1949. Cesserà tale compito il 24 gennaio 1943.

[21] In tempi recenti è stato ritrovato un documento (datato 4 ottobre 1942) che attesta la volontà di Mussolini di respingere gli ebrei croati in fuga dagli ustaše. Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Direzione generale della pubblica sicurezza, Divisione affari generali e riservati, Repubblica sociale italiana, cat. A16 Stranieri (1943-1944), b. 13, fasc. Ebrei stranieri ex-jugoslavi, Direzione generale della pubblica sicurezza, n. 443/152826, Appunto [per Mussolini], 4 ottobre 1942, con annotazioni autografe di Benito Mussolini.

[22] Cf anche: G. Fresolone-M. Naimoli (a cura), Giovanni Palatucci e gli ebrei internati a Campagna. Memorie, rappresentazioni e nuove ricerche, EDUP, Roma 2017.

[23] http://www.annapizzuti.it/public/analisi_fiume.pdf.

[24] http://www.annapizzuti.it/public/analisi_fiume.pdf.

[25] F. Falk, Le comunità ebraiche di Fiume ed Abbazia nel periodo 1915-1945 e le vicissitudini che hanno portato alla loro completa dispersione dopo la fine della seconda guerra mondiale, Litos, Roma 2012. 

[26] F. Falk, op. cit., cf capitolo: ‘Le comunità ebraiche’. Frasi significative sono state evidenziate in grassetto. Si veda anche: https://www.bh.org.il/jewish-spotlight/fiume/.

[27] Le frasi significative sono state evidenziate in grassetto.

[28] L'operazione Reinhardt era il nome in codice dato dai nazisti al progetto di sterminio degli ebrei in Polonia. Si trattò della fase iniziale dell'olocausto. Anticipò l’uso dei gas ad Auschwitz.

[29] Su Hoepener cf anche: G. Pisanò, Storia della guerra civile in Italia (1943-1945), Edizioni FPE, Milano 1965, p. 1380.

[30] Relazione del Comando Compagnia Speciale della Gnr, in B. Gariglio (a cura), ‘Cattolici e Resistenza nell’Italia settentrionale’, Bologna, Il Mulino, 1997, pp.176-177.

[31] Assegnato poi a Lucca.

[32] Dal 1° ottobre 1943 all’aprile 1944.

[33] Dall’aprile 1944 all’ottobre 1944.

[34] Cf anche: R. Pupo, Fiume città di passione,  Laterza, Bari-Roma 2018, cap. 4, ‘L’estremo lembo della patria’.

[35] Frase evidenziata in grassetto perché significativa.

[36] Testo in: M. Bianco - A. De Simone Palatucci, Giovanni Palatucci, La Scuola di Pitagora Editrice, Napoli 2013, pp.347-348.

[37] Solo di recente è stato individuato un documento. Si tratta di un rapporto di un agente dell’OZNA (polizia politica segreta di Tito), datato 25 dicembre 1944. Nel testo, tra l’altro, si legge: “Palatucci negli ultimi tempi risulta spiccatamente anglofilo e simpatizzante degli ebrei”. Archivio di Stato di Rijeka. Fondo OZNA. Rapporti a Belgrado.

[39] Non è stato ancora ritrovato il verbale dell’operazione.

[40] Non è stato ancora ritrovato il verbale degli interrogatori.

[41] Si rimanda a: P. Santarcangeli, In cattività babilonese, presentazione del fiumano Leo Valiani, Del Bianco Editore, Udine 1987, p. 47. Cf anche la testimonianza di Alberino Palumbo (in: Bianco-Palatucci, op. cit., p. 139).

[42] A.L. Jamini, Il salvataggio degli ebrei a Fiume durante la persecuzione nazi-fascista, in: ‘Il Movimento di liberazione in Italia’, n. 37, luglio 1955, p. 47.

[43] Contava più di 40 mila iscritti specie nei centri di Belém (Pará), Salvador de Bahia, San Paolo e Rio de Janeiro.

[44]  Era sposato con una donna ebrea rumena: Edith Ternyei.

[45]  A cura di A. Tagliacozzo.

[46]  Francesco Cantori (1891-1943).

[47] Dante Almansi (1877-1949). Fu presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane.

[48] S. Sorani, L’assistenza ai profughi ebrei in Italia (1933-1941). Contributo alla storia della Delasem, Carucci, Roma 1983, pp. 96-97.

[49] S. Sorani, L’assistenza ai profughi ebrei in Italia (1933-1941). Contributo alla storia della Delasem, Carucci, Roma 1983, pp. 123-125. Il 31 agosto 1977 Settimio Sorani scrisse a Teodoro Morgani (nato nel 1910 a Fiume, di religione ebraica): “… se (Palatucci)  fosse stato ebreo e avesse salvato i correligionari, non avrebbe fatto nulla di speciale. Quello che Lo distingue è di averlo fatto senza essere ebreo e a rischio della propria vita” (in: G. Raimo, A Dachau,  per amore. Giovanni Palatucci, Dragonetti, Montella 1992, p. 56).

[50] Fu arrestato prima dai fascisti (che lo inviarono al confino politico nelle isole Tremiti), e poi dai titoini (che lo processarono e incarcerarono). Cf anche: M. Dassovich, Itinerari fiumani 1938-1949, Edit. Rivista “Fiume”, supplemento, Roma 1975.

[51] Archivio di Stato di Trieste. Archivio privato Mario Dassovich. Busta 18. Fascicolo 76. “Materiali su Antonio Luksich-Jamini”. Si riporta il passaggio che interessa: “(…) Gli Israeliti che furono aderenti attivi della nostra Lotta di liberazione, e che per codesto motivo perirono, sono stati iscritti nei nostri elenchi. I Milch, padre e figli, che vivevano nascosti, protetti dal dottor Palatucci, caddero nelle mani delle SS di Fiume dopo una vertenza avuta col figlio del corrispondente de “Il Piccolo” di Trieste, Lucifero Mastini, ancora fascista, concernente l’appartamento dei Milch, che il Mastini pretendeva di occupare essendo d’un Ebreo».

[52] Cf  anche gli studi di Matteo Luigi Napolitano pubblicati in: https://vaticanfiles.wordpress.com.

[53] Alessandro Spalatin, Capo della Provincia dal 29 ottobre 1943 al 25 aprile 1945.

[54] Su questo A. cf anche: E. Di Francesco, Le voci dei salvati dal Giusto Palatucci, in: ‘Avvenire’, 23 luglio 2013.

[55] La commissione costituita presso la Fondazione Centro di documentazione Ebraica contemporanea di Milano era stata istituita su richiesta dell’Unione delle comunità ebraiche italiane. È stata coordinata dal presidente del Cdec prof. Michele Sarfatti. Il gruppo, insediatosi il 17 dicembre 2013, ha tenuto sei riunioni plenarie a Roma e Milano. Un anno e quattro mesi di lavori sintetizzati da uno stringato documento finale, che ha portato all’«acquisizione di nuove fonti documentarie», accanto all’esame di «documenti già noti e studi già pubblicati». I membri di fede ebraica non hanno comunque divulgato i documenti in loro possesso.

Una iniziativa di chi scrive, che ha utilizzato anche la squisita cortesia del Dott. Marino Micich,  mirata ad acquisire un preciso documento su Palatucci, non ha avuto esito.

[56] Edmondo Granitz, di religione ebraica, era nato (1896) a Gyor in Ungheria. Con il  fratello Rodolfo si era poi trasferito a Fiume, a quel tempo ungherese. Dopo la I guerra mondiale solo Rodolfo ottenne la cittadinanza italiana (non  Edmondo). Nel 1924 Fiume passò all’Italia. Con le leggi razziali, a Rodolfo Granitz (con il nome italianizzato in Grani) fu tolta la cittadinanza italiana. Nel 1940 i due fratelli vennero internati come ebrei apolidi: Edmondo a Campagna (Salerno) poi a Tortoreto (Teramo) e a Ferramonti (Cosenza); Rodolfo a Campagna e poi a Ferramonti. Esiste un carteggio tra Rodolfo, che si firma Grani, e mons. Giuseppe Maria Palatucci, per ottenere il trasferimento in una sede di internamento meno disagiata al Sud, poi ottenuto, e successivamente ad Abano Terme e Lonigo di Vicenza. Nel 1945 Rodolfo era a Lecce,  si trasferì poi in Israele ove fondò un’Associazione di Riconoscenza per Giovanni Palatucci. Di Edmondo si conosce il fatto che si era aggregato alla Va  armata USA  con Nicolò Giani, figlio di Rodolfo, ex-ufficiale della Milizia, anche lui internato come ebreo fino all’8 settembre. Nei primi giorni di maggio del 1945, vestito con la divisa americana da combattimento, Nicolò si recò a Fiume con lo zio Edmondo. Vennero arrestati dai comunisti titoini. Furono fucilati con l’accusa di spionaggio a favore dell’Italia.

[57] Alcune frasi sono state evidenziate in grassetto per la loro significatività.

[58]Aiutò in tutti i modi ebrei, slavi, antifascisti arrestati: voleva fare sentire che l’Italia era ancora un Paese civile. Tentava di riscattare le istituzioni che serviva e delle quali allora dovette sentire vergogna. Consolò gli afflitti, soccorse i derelitti. Favorì qualche evasione”. Cit. P.  Santarcangeli, In cattività babilonese. Avventure e disavventure in tempo di guerra di un giovane giuliano ebreo e fiumano per giunta, Del Bianco, Udine 1987, pp. 44-45.

[59] A Trieste sono da ricordare il Capo dell’ufficio politico della Questura Feliciano Ricciardelli (morto nel 1968), coadiuvato da Calogero Pisciotta (morto nel 1945) e dal maresciallo Nicolò Raho (morto nel 1981); il direttore dell’ufficio anagrafe Goffredo Terribile sostenuto dal maresciallo di pubblica sicurezza Salvatore Messina e dal carabiniere Egidio Varigiu; il capo ufficio delle carte d’identità Giovanni Bressan nonché il consigliere generale italiano di prefettura Marcello Zuccolin e il capo Gabinetto della stessa avvocato Francesco Del Cornò (nato nel 1876).

 

[60] Archivio Centrale dello Stato, Giovanni Palatucci, rapporti, luglio 1944.

[61]  Per le fonti di questo saggio: https://it.gariwo.net. “Giusti tra le nazioni di Yad Vashem”. Giovanni Palatucci 1909-1945. Approfondimenti su Gariwo. “Commissione di studio sulla figura e l’operato di Giovanni Palatucci 2 aprile 2015 [documento].